Aritmie e disturbi del ritmo

Le aritmie o disturbi del ritmo cardiaco sono un ampio ed eterogeneo sottogruppo di malattie cardiovascolari che si caratterizza per la presenza di una alterazione della normale frequenza o regolarità del battito cardiaco. Si tratta di disturbi estremamente comuni (interessano infatti dal 5 al 60% della popolazione generale), sono frequentemente causa di sintomi anche invalidanti, e a volte, possono essere pericolose per la vita. 

Domande frequenti

Definizione

Le aritmie o disturbi del ritmo cardiaco sono un gruppo numeroso di malattie cardiovascolari caratterizzate dalla presenza di un battito cardiaco anomalo. Con battito anomalo si intende il battito cardiaco quando è eccessivamente rapido, eccessivamente lento, oppure irregolare. Per convenzione, si considera “normale” un battito cardiaco ritmico (ovvero in cui il tempo che trascorre tra i singoli battiti cardiaci è sempre lo stesso) con una frequenza compresa nell’intervallo tra i 60 e i 100 battiti per minuto (bpm). Di conseguenza, quando il battito è inferiore a 60 bpm si parlerà di bradiaritmia (dal greco βραδύς, lento), quando al contrario, il battito eccede i 100 bpm, si parlerà di tachiaritmia (dal greco ταχύς, veloce). Questa semplice classificazione presenta chiaramente dei limiti. Infatti, il riscontro di un battito inferiore a 60 bpm o superiore a 100 bm non deve immediatamente e automaticamente condurre ad una diagnosi di aritmia, ma piuttosto richiede che tale valore venga contestualizzato con le caratteristiche e stile di vita della persona in cui è stato identificato. Un esempio per comprendere meglio questo concetto: una frequenza cardiaca a riposo di 40 bpm in una persona che pratica regolarmente intensa attività sportiva (es. podismo, ciclismo, sci di fondo, etc.) può essere perfettamente normale e fisiologica mentre la stessa frequenza, riscontrata invece in una persona anziana, magari in assenza di terapia, è un riscontro anomalo, spesso segno della presenza di una bradiaritmia, da indagare in maniera opportuna

Classificazione

Abbiamo visto in precedenza che possiamo classificare le aritmie in base alla frequenza cardiaca e all’irregolarità del battito. In caso di riscontro di valori di frequenza cardiaca minori di 60 e maggiori di 100 bpm parleremo, rispettivamente, di bradiaritmie e tachiaritmie.

Cause e fattori di rischio

Ci sono innumerevoli fattori che, agendo sulla formazione e/o propagazione dell’impulso elettrico, alterano il normale funzionamento dell’impianto elettrico cardiaco, causando aritmie. Tra i fattori più comuni vi sono:

  • Presenza di cardiopatia strutturale
  • Presenza di anomalie congenite (es. malattie dei canali ionici)
  • Alterazioni della funzione tiroidea
  • Alterazioni dell’ossigenazione del sangue
  • Febbre
  • Alterazioni elettrolitiche
  • Altre malattie sistemiche
  • Assunzione farmaci/sostanze stupefacenti/alcol/caffeina/altre sostanze stimolanti
  • Fumo
  • Intenso stress emotivo
Sintomi

Le aritmie possono presentarsi con uno spettro estremamente eterogeneo di sintomi, che variano a seconda del tipo e della durata dell’aritmia, di come viene tollerata dal paziente, delle caratteristiche cliniche di quel paziente e infine anche delle condizioni ambientali in cui si verifica. I sintomi più comuni sono:

  • Cardiopalmo (batticuore o palpitazioni)
  • Astenia (stanchezza)
  • Facile affaticabilità
  • Tachipnea (respiro rapido)
  • Dispnea (mancanza di fiato e senso di “fame d’aria”)
  • Dolore toracico
  • Lipotimia (giramento di testa e senso di svenimento)
  • Vertigini
  • Parestesie (alterazione della sensibilità cutanea)
  • Sincope (svenimento completo con perdita di coscienza)
  • Arresto cardiaco/morte cardiaca improvvisa

Sfortunatamente nessun sintomo è “patognomonico” di una aritmia e nessuna aritmia ha generalmente un sintomo “patognomonico”! Questo significa, da una parte, che la sintomatologia lamentata dai pazienti può di per sé essere aspecifica e non diagnostica, e dall’altra, che molte altre condizioni cliniche esistenti sono in grado di causare gli stessi sintomi sopracitati. Di conseguenza, per raggiungere una diagnosi e interpretare correttamente un sintomo potenzialmente legato ad una aritmia, è essenziale una approfondita valutazione medica da parte di un medico specialista con adeguate conoscenze ed esperienza in ambito aritmologico.

Diagnosi

Di fronte ad un paziente con aritmie o con sintomi suggestivi per aritmie, bisogna, da una parte, capire se si tratta davvero di aritmie e, se sì, identificare quale tipo di aritmia ha il paziente. Dall’altra parte, bisogna escludere la presenza di una qualche forma di cardiopatia sottostante così come di altre malattie sistemiche. Quest’ultimo, in particolare, è uno step diagnostico essenziale perché qualunque sia l’aritmia, il suo significato prognostico, ovvero la pericolosità, è legato alla o alle comorbilità a cui è associata. In altre parole, una aritmia in un cuore perfettamente sano non si assocerà pressoché mai ad un aumentato rischio di morte mentre la stessa aritmia, in un paziente con una importante cardiopatia strutturale (per esempio un pregresso infarto miocardico), determinerà un rischio più o meno alto di eventi avversi, anche molto gravi.

Volendo schematizzare ciò che abbiamo appena visto, il percorso diagnostico in una persona con sintomi suggestivi di aritme presuppone due step:

  • Primo step: registrazione dell’elettrocardiogramma durante il sintomo. 
  • Secondo step: identificazione di potenziali cause dei sintomi, in termini di malattie sistemiche, assunzione di sostanze favorenti e/o presenza di cardiopatia strutturale sottostante 

Il primo step, ovvero la documentazione elettrocardiografica del sintomo, è quel passaggio che ci permette di capire con certezza se la sintomatologia lamentata dal paziente è da riferirsi ad una aritmia o è invece da ascrivere ad altre cause.  La documentazione del sintomo con ECG può essere fatta, a seconda della durata e della frequenza dei sintomi, mediante l’utilizzo di ECG, monitoraggio ECG dinamico delle 24 ore (Holter cardiaco), smart-Watch, test ergometrico, registratore di eventi, impianto di loop-recorder e studio elettrofisiologico.

Per quanto riguarda invece il secondo step, il percorso diagnostico presuppone un’anamnesi completa, un attento esame obiettivo, l’ECG, degli esami di laboratorio finalizzati ad escludere eventuali malattie sistemiche, e se necessario, l’esecuzione di ulteriori esami di imaging, quali l’ecocardiogramma, la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cardiaca e la Tomografia Computerizzata (TC), al fine di escludere/confermare la presenza di una cardiopatia strutturale sottostante.

TRATTAMENTO

BRADIARITMIE

  1. Malattia del nodo seno atriale

La “malattia del nodo seno atriale” o “sick sinus syndrome” è una bradiaritmia, conseguenza di un cattivo funzionamento del nodo seno-atriale, ovvero il principale pacemaker naturale del cuore. Come risultato, la frequenza cardiaca risulterà essere inferiore a quanto dovrebbe essere normalmente, sia a riposo che in corso di attività fisica. Esiste inoltre una ulteriore forma di malattia del nodo seno atriale caratterizza invece dall’alternanza di fasi di spiccato rallentamento del battito cardiaco a fasi di battito accelerato, generalmente rappresentati da episodi di fibrillazione atriale. In questo caso si parla di sick sinus syndrome bradi-tachi. Il risultato di questa frequenza cardiaca bassa, non in grado di rispondere alle esigenze metaboliche dell’organismo, sarà la presenza di sintomi quali stanchezza, mancanza di fiato, giramenti di testa fino allo svenimento completo (sincope). Elementi diagnostici patognomonici sono il riscontro costante all’ECG o agli Holter ECG di bradicardia sinusale spiccata associata a pause sinusali, della durata anche di diversi secondi. La causa principale è la degenerazione senile a carico del nodo seno-atriale e, per tale motivo, si tratta di una patologia molto più comune nelle persone anziane. È rarissima infatti nelle persone giovani. Una volta fatta diagnosi con ECG e Holter cardiaco e correlato i sintomi del paziente al riscontro oggettivo di marcati rallentamenti della frequenza cardiaca, dopo attenta valutazione della terapia assunta dal paziente con conseguente eliminazione dei farmaci ad azione bradicardizzante, l’unica strategia terapeutica esistente è l’impianto di un pacemaker. Questo permette la completa scomparsa dei sintomi e il ritorno del paziente ad una vita completamente normale. Nel caso invece della sindrome bradi-tachi il discorso è più complesso. Qui il primo intervento terapeutico, avendo documentato una fibrillazione atriale, consiste nella valutazione del rischio tromboembolico ed emorragico e nel conseguente avvio di una adeguata terapia anticoagulante, quando necessario. I successivi step riguardano la scelta della migliore strategia terapeutica, che include uno o più tra profilassi antiaritmica, ablazione transcatetere o impianto di PM definitivo, e vanno individualizzati da paziente a paziente.

  1. Disturbi di conduzione atrio-ventricolari

La caratteristica comune di tutti i tipi di blocco atrio-ventricolare (BAV) è la presenza di un disturbo di conduzione dell’impulso elettrico a livello del nodo atrio-ventricolare (NAV) o del tessuto di conduzione sottonodale. Il risultato è o l’allungamento del tempo di conduzione necessario all’impulso per andare dagli atri ai ventricolari o l’impossibilità tout-court dell’impulso a propagarsi dagli atri ai ventricoli. Nel BAV di I grado la conduzione atrio-ventricolare è mantenuta (vi è quindi un rapporto costante 1:1 tra attivazione atriale e attivazione ventricolare) ma avviene con ritardo, per cui all’ECG si osserverà un intervallo PQ più lungo di 200 ms. Caratteristica comune invece dei BAV di II grado è che alcuni impulsi verranno condotti ai ventricolari mentre altri sono bloccati. Nel BAV di II grado tipo I, anche detto blocco Luciani-Wenckebach o Mobitz I, vi è un progressivo allungamento del tempo di conduzione atrio-ventricolare (e quindi all’ECG del PQ) finché una attivazione atriale non sarà più seguita da una attivazione ventricolare per cui si verifica una pausa. L’impulso atriale successivo è di nuovo condotto con PQ corto, dopo di che il PQ si allunga nuovamente e il fenomeno si ripete. Nel BAV di II grado tipo II o Mobitz II, invece, si osserva l’improvvisa mancata conduzione di un impulso atriale ai ventricoli senza nessun precedente allungamento dell’intervallo PQ. Nel BAV di II grado 2:1 gli impulsi atriali sono alternativamente condotti e bloccati, per cui solo una attivazione atriale su due verrà trasmessa ai ventricoli. Nel BAV di II grado avanzato si osserva la mancata conduzione di due o più impulsi atriali consecutivi ai ventricoli. Nel BAV di III grado o completo, infine, vi è un blocco completo di conduzione tra atri e ventricolari per cui nessun impulso atriale raggiunge i ventricoli. I BAV si osservano molto più frequentemente nelle persone anziane o nei pazienti portatori di significative cardiopatie strutturali. I sintomi dei BAV sono simili a quelli della malattia del nodo seno atriale e sono legati al rallentamento della frequenza cardiaca e/o alla comparsa di vere e proprie pause, come conseguenza della mancata attivazione dei ventricoli, dovuta al mancato arrivo ad essi dell’impulso elettrico di attivazione. Mentre il BAV di I grado e il BAV di II grado tipo I molto raramente causano sintomi e quindi generalmente non necessitano di trattamento alcuno, il BAV di II grado tipo II, il BAV 2:1, quello avanzato e il BAV di III grado richiedono quasi sempre l’impianto del pacemaker definitivo che, mediante il ripristino del normale sincronismo tra atri e ventricoli, permette di ripristinare il corretto funzionamento dell’impianto elettrico cardiaco e di eliminare completamente i sintomi lamentati dal paziente.

  1. Disturbi di conduzione intra-ventricolari

Caratteristica comune dei blocchi di conduzione intra-ventricolari è la presenza di un marcato rallentamento della conduzione o blocco completo di conduzione in una o più delle arborizzazioni del sistema di conduzione intra-ventricolare. Il blocco di branca destro (BBD) si caratterizza per un blocco di conduzione nella branca destra per cui l’impulso elettrico che proviene dal fascio di His scende nella branca sinistra attiva il ventricolo sinistro e successivamente l’impulso si propagherà molto lentamente anche al ventricolo destro, passando attraverso il normale miocardio ventricolare. Nel blocco di branca sinistro (BBS) la situazione è opposta con il ventricolo destro che si attiva per primo e il sinistro che si attiva per lenta propagazione dell’impulso elettrico attraverso il normale miocardio ventricolare. Negli emiblocchi invece solo uno dei due fascicoli che compongono la branca sinistra è alterato. Il BBD è presente in circa il 3% della popolazione giovanile e in tale contesto non ha alcun significato patologico. Quando compare invece in età più avanzata è generalmente segno di un processo degenerativo che vede nell’invecchiamento, nel diabete mellito e nell’ipertensione arteriosa le tre cause più comuni. È presente anche in patologie primitive del ventricolo destro così come in alcuni casi di embolia polmonare. Il BBD isolato non richiede alcun trattamento specifico. Il BBS è invece presente nella popolazione generale solo nel 0.06-0.1%, quindi è estremamente raro identificarlo in una persona sana. Rappresenta generalmente la presenza di una patologia cardiaca primitiva con un diffuso processo patologico a carico del ventricolo sinistro (ad esempio un infarto miocardico esteso, la stenosi aortica, una cardiomiopatia dilatativa idiopatica, una cardiopatia ipertrofica o ipertensiva, etc). Per tale motivo, la sua identificazione impone un attenta valutazione cardiologica e  un follow-up clinico nel tempo. I blocchi bifascicolari (BBD+EAS, BBD+EPS) o l’associazione tra blocchi bifascicolari e il BAV di I grado (BBD+EAS/BBD+EPS + BAV di I grado nodale) sono nella stragrande maggioranza dei casi una conseguenza di un processo degenerativo, più frequentemente su base senile, dell’impianto di conduzione cardiaco. Sono relativamente comuni e richiedono l’impianto di un PM definitivo solo in caso di sincopi. Il blocco trifascicolare, invece, ovvero il BBD e BBS alternante o il blocco bifascicolare (BBD+EAS o BBD+EPS) con BAV di I grado sottonodale, richiede sempre l’impianto di un PM definitivo, visto l’alto rischio di evoluzione verso il BAV completo e l’aumento di mortalità associata con questi tipi di disturbi di conduzione.

TACHIARITMIE

  1. Tachicardie sopraventricolari

 

  • Tachicardia sinusale

La tachicardia sinusale si caratterizza per la presenza di un ritmo sinusale (ovvero un’attivazione atriale fisiologica che origina dal NSA) con frequenza ≥ 100 bpm. È sicuramente l’”aritmia” di più frequente riscontro nella vita di ogni persona. Rappresenta la normale risposta cardiaca ad uno sforzo fisico, emozioni, stress o all’assunzione di sostanze stimolanti e/o trigger metabolici (ad esempio febbre, ipossia, ipertiroidismo, etc.). È quindi sempre una risposta fisiologica dell’organismo e non necessita mai, di per sé, di un trattamento. In alcuni casi, come detto in precedenza, è la spia di un problema medico di altra natura e in quest’ottica richiede una attenta valutazione medica. Tutto quanto detto fino ad ora rispetto alla tachicardia sinusale si riferisce alle persone adulte. I bambini e ancora di più i neonati hanno una frequenza cardiaca significativamente più alta delle persone adulte e quindi, in questo contesto, la tachicardia sinusale è assolutamente fisiologica, anche a riposo, e non necessita di alcun trattamento.

  • Tachicardia sinusale inappropriata

Si tratta di una aritmia molto rara, di non facile diagnosi e non semplicissimo trattamento. Da alcuni autori, a livello mondiale, è addirittura messa in dubbio la sua esistenza come entità a sè stante. Da un punto di vista ECG è indistinguibile dalla precedente: si caratterizza infatti per la presenza di una frequenza sinusale ≥ 100 bpm. La differenza rispetto alla normale tachicardia sinusale è che qui la frequenza sinusale elevata si verifica a riposo o a seguito di sforzi minimi. In questi pazienti, inoltre, osservando il trend della frequenza nelle 24 ore (facilmente estrapolabile da qualunque Holter ECG), si vedrà una frequenza molto elevata costante, presente anche di notte. Cosa, questa, molto inusuale giacché di notte con l’aumento del tono vagale e la riduzione di quello adrenergico la frequenza tipicamente si riduce rispetto alle ore diurne. Soggettivamente i sintomi più comuni riferiti dai pazienti sono cardiopalmo, astenia, dispnea, che tipicamente possono persistere per ore o giorni. Essendo una entità rara i dati a lungo termine sono molto esigui ma, da ciò che è noto, non sembra essere associata ad un aumento di mortalità. La diagnosi presuppone oltre che alla documentazione di frequenze sinusali elevate a riposo e di notte anche l’esclusione di altre cause, esterne o internistiche, di tachicardia sinusale. Una volta accertata la diagnosi il trattamento presuppone l’utilizzo di farmaci ad azione cronotropa negativa, ovvero che rallentano i battiti cardiaci, quali beta-bloccanti, Ca-antagonisti non-diidropiridinici e ivabradina, da soli o in associazione. Nei pochi casi refrattari a tali farmaci l’ablazione trancatetere con modulazione del NSA è una strategia terapeutica percorribile, non rischiosa, che ha dimostrato discreti risultati.

  • Tachicardia da rientro nodale atrio-ventricolare (AVNRT)

La AVNRT, così come la AVRT e la TAE, fanno parte del grande capitolo di aritmie che sono le TPSV, ovvero le tachicardie parossistiche sopraventricolari. Gli elementi in comune di queste aritmie sono i seguenti: hanno una frequenza generalmente compresa tra i 140 e i 240 bpm, hanno inizio e fine improvvisi (da cui parossistiche) ed originano anatomicamente dagli atri o dalla giunzione atrio-ventricolare. Le TPSV sono le aritmie in assoluto più comune nelle persone giovani e con un cuore sano e sono più frequenti nelle donne rispetto agli uomini. Le AVNRT, in particolare, rappresentano oltre il 60% di tutte le TPSV. Come abbiamo visto in precedenza, normalmente l’impulso si forma nel nodo seno-atriale, si propaga agli atri, attraversa il NAV, e tramite il fascio di His e le branche raggiunge i ventricoli. In circa il 75% della popolazione all’interno (o nelle immediate vicinanze) del NAV esiste una sola strada che l’impulso può prendere per raggiungere il fascio di His. Circa il 25% della popolazione generale ha invece due vie di conduzione. Fintantoché queste due vie di conduzione hanno proprietà analoghe (periodi refrattari e velocità di conduzione simili) non succede nulla. Ma se invece le due vie hanno caratteristiche diverse (una via, detta ß, con rapida capacità di conduzione ma un periodo refrattario lungo, l’altra via, detta α, con lenta velocità di conduzione ma con un periodo refrattario breve) e si verifica un battito anticipato atriale (anche detta extrasistole atriale) la situazione cambia. Infatti, l’impulso anticipato troverà ancora refrattaria la via ß (che abbiamo visto ha un più lungo periodo refrattario) e procederà verso il ventricolo attraverso la via α lentamente; arrivato al fondo del NAV troverà l’altra via ß nuovamente eccitabile e a sua volta si propagherà indietro verso gli atri. Giunto all’inizio della via ß, l’impulso troverà la via α nuovamente eccitabile e quindi scenderà nuovamente verso i ventricoli: se questo meccanismo si mantiene, si instaurerà una AVNRT. Da un punto di vista clinico, le AVNRT si presentano con un batticuore improvviso, senza chiari fattori innescanti (se si esclude il frequente riscontro di un piegamento verso il basso per raccogliere qualcosa da parte del paziente un attimo prima dell’innesco dell’aritmia), a volte associato a dispnea, dolore toracico, vertigini, molto raramente sincopi. Infatti, poiché compaiono in pazienti con cuore sano, gli episodi aritmici sono generalmente ben tollerati emodinamicamente. Gli episodi hanno durata ampiamente variabile, da pochi secondi a diverse ore, e possono avere cadenza estremamente irregolare (da un episodio all’anno a più episodi alla settimana), spesso raggruppati a cluster, con una finestra libera da episodi anche di diversi mesi. Nel tempo gli episodi possono tendere ad intensificarsi, diventando più frequenti e più lunghi, anche se generalmente meno veloci. Da un punto di vista prognostico, seppur possono essere estremamente fastidiose e anche invalidanti, queste aritmie non sono pericolose per la vita. La diagnosi di AVNRT presuppone la registrazione della tachicardia con ECG che permette una diagnosi presuntiva in oltre il 90% dei casi mentre la diagnosi di certezza si raggiunge con l’esecuzione dello studio elettrofisiologico. Il trattamento cambia a seconda della frequenza e della durata degli episodi. In caso di batticuore, la prima cosa da fare è tentare la manovra di Valsalva: questa in circa il 28% dei casi, se fatta subito dopo l’insorgenza dell’aritmia, è in grado di interrompere la tachicardia. In caso di inefficacia, se dopo qualche ora il cardiopalmo persiste, è opportuno recarsi in Pronto Soccorso per ripristinare il normale battito cardiaco. La prevenzione delle recidive si effettua mediante l’ablazione transcatetere (indicazione classe I secondo le attuali linee guida) o mediante l’assunzione di farmaci, quali calcio-antagonisti e beta-bloccanti,  consigliati solo qualora il paziente rifiuti l’ablazione. Al riguardo è importante sottolineare che mentre l’ablazione permette in oltre il 95% dei casi la completa guarigione (senza più necessita successiva di assumere terapie), i farmaci permettono al massimo solo di controllare gli episodi aritmici ed hanno una efficacia estremamente variabile (dal 13 all’82%). Vanno inoltre assunti a vita perchè la loro sospensione si associa alla ricomparsa delle artitmie e circa metà dei pazienti li devono sospendere per intolleranza o comparsa di effetti collaterali.

  • Tachicardia da rientro atrio-ventricolare reciprocante (da via accessoria, AVRT)

Queste forme di tachicardia rappresentano circa il 35% di tutte le TPSV. Si caratterizzano per la presenza di una via anomala, ovvero una sottilissima fibra di tessuto muscolare che, unendo gli atri con i ventricoli, permette all’impulso elettrico di raggiungere l’altra camera cardiaca, by-passando il normale sistema di conduzione cardiaco. Queste vie anomale sono una anomalia congenita (ovvero si nasce con questa problematica) e possono localizzarsi pressoché ovunque attorno agli anelli valvolari atrio-ventricolari (mitrale e tricuspide). Possono avere capacità di conduzione solo anterograda (ovvero propagano l’impulso solo dagli atri ai ventricoli), solo retrograda (quindi l’impulso viene trasmesso esclusivamente dai ventricoli agli atri) o, più comunemente, in entrambe le direzioni. Quando sono dotate di conduzione anterograda, parte del ventricolo viene attivato precocemente dal fronte di attivazione proveniente da questa via anomala e il risultato ECG è la comparsa di una onda delta, segno di pre-eccitazione ventricolare (a volte identificata con il termine non perfettamente corretto di sindrome di Wolff-Parkinson-White, WPW). Queste vie accessorie sono responsabili di quella particolare forma di tachicardia sopraventricolare che è la AVRT. In essa, l’impulso elettrico viaggia dagli atri ai ventricoli attraverso il NAV e fascio di His e ritorna agli atri attraverso la via accessoria (esiste anche una variante molto più rara in cui il circuito è percorso nella direzione opposta). Perché è importante riconoscere una AVRT e soprattutto capire se un paziente ha l’onda delta all’ECG, ovvero ha segni di pre-eccitazione ventricolare? Perché mentre il normale sistema di conduzione cardiaco è costituito da fibre lente calcio-dipendenti, responsabili di un marcato rallentamento della capacità di conduzione man mano che la frequenza di impulsi che lo raggiunge cresce, le vie accessorie sono invece fibre rapide sodio-dipendenti e hanno capacità di conduzione tutto-o-nulla. Questo significa che se hanno scarsa capacità di conduzione l’impulso a una determinata frequenza si bloccherà in esse e nulla succederà. Se invece hanno alta capacità di conduzione tutti gli impulsi possono essere condotti ai ventricoli con conseguente rischio di induzione di fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco. Lo studio elettrofisiologico è l’esame di certezza per capire se la via anomala ha elevata o scarsa capacità di conduzione anterograda e svolge quindi un ruolo essenziale e insostituibile nella stratificazione del rischio di morte nei pazienti con via accessorie. Per quanto riguarda la presentazione clinica, è essenzialmente analoga a quella delle AVNRT. La diagnosi, così come in tutte le TPSV, presuppone l’esecuzione di un ECG in corso di tachicardia che permetta una diagnosi presuntiva e il successivo studio elettrofisiologico (esame quest’ultimo da eseguirsi sempre in tutti pazienti con WPW per avere una precisa stratificazione del rischio di morte), necessario per confermare con certezza la diagnosi. Il trattamento delle AVRT (delle vie anomale e della sindrome di WPW) si basa sull’ablazione transcatetere, che mediante l’eliminazione della via accessoria, determina la guarigione in oltre il 95% dei pazienti.

  • Tachicardia permanente reciprocante (PJRT)

Si tratta di una rara forma di TPSV, in cui il circuito comprende in anterogrado l’utilizzo del normale sistema di conduzione cardiaco, mentre in retrogrado la presenza di una via accessoria particolare, ovvero con sola capacità di conduzione retrograda e a conduzione lenta decrementale. Non avendo affatto capacità di conduzione anterograda non implica nessun rischio di mortalità. La caratteristica clinica peculiare è che invece di essere a carattere parossistico tende ad avere un andamento persistente con lunghissimi episodi di aritmia inframmezzati da brevi periodi di normale ritmo sinusale. Proprio questa proprietà di dar origine ad episodi molto lunghi, in alcuni pazienti, può causare quella che viene definita una tachicardiomiopatia, ovvero una forma di scompenso cardiaco legato al fatto che il cuore ha battuto troppo veloce per troppo tempo. L’elemento positivo è, comunque, che il suo trattamento si associa quasi sempre, anche in pazienti con scompenso, alla successiva normalizzazione della funzione cardiaca. Da un punto di vista clinico, i principali sintomi sono il cardiopalmo a carattere persistente, la dispnea per sforzi via via più lievi e l’astenia. La diagnosi di presunzione si fa documentando la tachicardia con ECG, la diagnosi di certezza si può raggiungere solo con lo studio elettrofisiologico. Il trattamento si basa sull’ablazione transcatetere che, eliminando la via accessoria, determina la guarigione dall’aritmia e, nei pazienti con riduzione della funzione meccanica cardiaca, anche una quasi costante normalizzazione di quest’ultima.

  • Tachicardia ectopica giunzionale

La tachicardia giunzionale ectopica è una rara forma di tachicardia caratterizzata da un focolaio “automatico” (ovvero un gruppo di cellule dotate di automatismo, cioè con una intrinseca capacità di generare impulsi) localizzato all’interno del “triangolo di Koch” (ovvero quella regione dell’atrio destro delimitata dal fascio di His, ostio del seno coronarico e anello tricuspidalico) o direttamente nel fascio di His. È una aritmia più comune nei neonati o nei bambini con età < 2 mesi. Si distingue in due forme: quella idiopatica, generalmente congenita e talora familiare, estremamente rara, e quella più frequente secondaria a interventi cardiochirurgici che determinino stiramento delle fibre nodali e hissiane (es. chiusura di difetto interventricolare perimembranoso o esposizione chirurgica attraverso il difetto). È incessante e pertanto si accompagna spesso a scompenso cardiaco e ad aumento della mortalità, specie nella forma congenita idiopatica. Il trattamento presuppone l’utilizzo di farmaci quali beta-bloccanti, verapamil, flecainide, propafenone o amiodarone. In alternativa o come secondo step terapeutico in caso di inefficacia della profilassi antiaritmica vi è l’ablazione transcatetere, caratterizzata da una buona sicurezza ed efficacia.

  • Tachicardia atriale ectopica

Si tratta del terzo meccanismo più comune alla base delle TPSV, circa il 5% dei casi. In questa tachicardia, una piccola porzione di tessuto atriale (sia destro che sinistro) acquisisce la capacità di automatismo, ovvero di generare spontaneamente impulsi elettrici cardiaci. I sintomi includono cardiopalmo, dispnea, astenia, dolore toracico, vertigini, raramente sincopi. Peculiarità di questa aritmia è il fatto che può presentarsi sia a carattere parossistico sia in modo persistente o addirittura incessante. In questo secondo caso può quindi anche associarsi a sintomi di scompenso cardiaco. La diagnosi si ottiene mediante l’ECG della tachicardia che tramite l’attenta analisi della morfologia delle onde P permette un parziale localizzazione a priori della sede di insorgenza dell’aritmia, sede che può essere confermata con certezza solo mediante studio elettrofisiologico. Il trattamento, così come per tutte le altre forme di TPSV, si basa principalmente sull’ablazione transcatetere  (classe I) che ha elevata efficacia (> 95%) e bassi rischi procedurali (<1%).

  • Flutter atriale (tipico comune, tipico non comune o reverse, atipico)

Il flutter atriale è una aritmia sopraventricolare relativamente comune, molto più comune nelle persone con oltre 50 anni di età, in cui la frequenza atriale è particolarmente rapida, di solito 250-350 bpm. Esistono diversi tipi di flutter atriale. Il primo tipo è il flutter atriale tipico comune, di gran lunga il più frequente, si caratterizza per una attivazione atriale con aspetto a “denti di sega” all’ECG ed è caratterizzato da un circuito localizzato in atrio destro in cui l’impulso ruota costantemente intorno all’anello tricuspidalico in senso antiorario. Il secondo tipo è il flutter atriale tipico non comune o reverse, molto meno frequente del precedente, in cui l’impulso si propaga sempre intorno all’anello tricuspidalico, ma in senso orario. Il terzo tipo, infine, è il flutter atriale atipico. Non rappresenta una sola aritmia bensì un ampio gruppo di aritmie atriali, che possono localizzarsi pressoché ovunque, sia in atrio destro che sinistro, e che hanno in comune l’elevata velocità atriale e il meccanismo alla base, ovvero una costante rotazione dell’impulso intorno ad un predefinito ostacolo. Sono esempi di flutter atriale atipico quei flutter che compaiono in pazienti con cardiopatia congenite e hanno subito un intervento cardiochirurgico con atriotomia (ovvero l’incisione chirurgica della parete atriale destra come punto di accesso alle cavità cardiache) oppure i flutter in pazienti con precedenti ablazioni di fibrillazione atriale o, ancora, i flutter atriali che compaiono in pazienti senza precedenti interventi ma con ampie zone cicatriziali in atrio, più frequentemente sinistro. Il flutter atriale è una aritmia che spesso (almeno nel 60-80% dei casi) coesiste con la fibrillazione atriale. Il flutter atriale è una aritmia importante da riconoscere perché, così come la fibrillazione atriale, si associa a tre diverse e gravi conseguenze:

  • Rischio tromboembolico: la velocissima attività elettrica atriale, da un punto di vista meccanico, ha come conseguenza una contrazione atriale generalmente inefficace in cui il sangue quindi può “ristagnare” e dare origine alla formazione di coaguli che possono successivamente mobilizzarsi ed embolizzare, cioè staccarsi dalle cavità cardiache, viaggiare nel torrente circolatorio e raggiungere qualunque organo periferico. Nel caso raggiungano le arterie che perfondono il cervello possono essere causa di ictus, generalmente molto gravi ed estesi.
  • Scompenso cardiaco: una elevata frequenza cardiaca alla lunga provoca una progressiva dilatazione delle camere cardiache con riduzione di efficacia del cuore come pompa e, di conseguenza, insorgenza di sintomi di scompenso cardiaco (edemi declivi, dispnea da sforzo, edema polmonare, etc.).
  • Sintomi: la maggior parte riferisce sintomi importanti, a volte addirittura invalidanti, come cardiopalmo, astenia, dispnea, dolore toracico, vertigini, raramente svenimenti.

La diagnosi di basa sull’esecuzione dell’ECG in corso di tachicardia. La prognosi dell’aritmia è legata principalmente al rischio tromboembolico del paziente, alla presenza di eventuali comorbilità (ovvero altre patologie mediche presenti in quel paziente) e di cardiopatia strutturale sottostante. Il trattamento presuppone da una parte la prevenzione del rischio tromboembolico, mediante l’avvio di una adeguata terapia anticoagulante se indicata, dall’altro il rallentamento dell’aritmia con farmaci quali beta-bloccanti, calcio-antagonisti e digitale, e infine l’eliminazione dell’aritmia mediante l’ablazione transcatetere, opzione terapeutica di gran lunga di prima scelta (classe I)  perchè permette l’eliminazione del circuito del flutter e quindi la completa guarigione. Si caratterizza per una percentuale di successo estremamente elevata (> 95% per il flutter atriale tipico comune e tipico reverse, > 90% per gli altri flutter atriali atipici) con un tasso di complicanze procedurali estremamente limitato (<0.5% per il flutter atriale tipico comune tipico reverse, < 1.5% per i flutter atriali atipici).

  • Tachicardia atriale multifocale

Si tratta di una aritmia atriale relativamente rara, caratterizzata da un ritmo atriale veloce e irregolare con almeno tre diverse morfologie dell’onda P all’ECG, segno quest’ultimo di una attivazione proveniente da più zone atriali. Si associa quasi sempre alla presenza di malattia polmonari come BPCO o ipertensione polmonare, alla cardiopatia ischemica e valvolare, così come alle alterazioni elettrolitiche e assunzione di alcuni tipi di farmaci (es. teofillina). La sintomatologia è generalmente caratterizzata da cardiopalmo, dispnea, astenia, raramente dolore toracico e sincope. A volte, invece, i sintomi dominanti sono quelli della patologia polmonare o cardiaca associata e l’aritmia rappresenta un semplice riscontro occasionale all’ECG. La diagnosi presuppone l’esecuzione dell’ECG in corso di aritmia (può facilmente simulare una fibrillazione atriale). Il trattamento presuppone la correzione delle cause favorenti sottostante e l’utilizzo di farmaci, quali beta-bloccanti e calcio-antagonisti.

  • Fibrillazione atriale

La fibrillazione atriale (FA) è la più comune aritmia esistente, dopo l’extrasistolia. Interessa circa 1-2% della popolazione generale dei paesi occidentali, è più comune nei maschi rispetto alle femmine e la sua frequenza aumenta progressivamente con l’età, passando dallo 0.7% in persone con meno di 50 anni a oltre il 30% in quelle con più di 80 (Figura 1). Inoltre, poiché la popolazione nei paesi occidentali sta progressivamente invecchiando, ci si aspetta un significativo aumento delle persone affette da FA, con dei picchi di 12 milioni entro il 2050 in USA, di 72 milioni entro il 2050 in Asia e di 17.9 milioni in Europa entro il 2060.

A parità di caratteristiche cliniche, le persone con FA hanno una mortalità più alta da 2 a 7 volte, un rischio di morte cardiaca improvvisa raddoppiato, un rischio di scompenso cardiaco più alto di 5 volte e un aumento del rischio di insufficienza renale cronica del 66%. La fibrillazione atriale, inoltre, aumenta circa 5 volte il rischio di ictus e fino al 30% di tutti gli ictus ischemici avvengono in pazienti con FA.

  • Fattori di rischio

La fibrillazione atriale è una aritmia che può presentarsi, a volte, in pazienti giovani e senza cardiopatia strutturali (e in questi casi spesso si tratta di persone che svolgono o hanno svoto in passato intensa attività sportiva di resistenza, spesso a livello agonistico) ma nella stragrande maggioranza dei casi si osserva in pazienti > 65 anni di età o in persone con importanti comorbilità, le più comuni delle quali sono la presenza di ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco, le cardiopatie valvolari, altre cardiopatia strutturali, il diabete mellito, l’obesità, i disturbi della tiroide e le malattie respiratorie (embolie polmonari, BPCO e la sindrome delle apnee ostruttive del sonno o OSAS). Quando, invece, alla fibrillazione atriale si associa la malattia del nodo seno-atriale, parleremo di una entità clinica peculiare, che presenta alcune significative differenze in termini di sintomi e trattamento, che prende il nome di sindrome bradi-tachi.

 

  • Classificazione

Da un punto di vista della classificazione, esistono quattro principali forme di FA:

  1. Fibrillazione atriale parossistica: gli episodi terminano spontaneamente o con cardioversione entro 7 giorni.
  2. Fibrillazione atriale persistente: gli episodi durano oltre 7 giorni e meno di 12 mesi (l’interruzione dell’episodio avviene molto raramente in maniera spontanea, quasi sempre mediante cardioversione).
  3. Fibrillazione atriale persistente di lunga durata: gli episodi durano oltre 12 mesi.
  4. Fibrillazione atriale permanente (o cronica): tale espressione, un tempo utilizzata anche per le forme persistenti di lunga durata, andrebbe oggi limitato ai soli casi in cui paziente e medico decidono di accettare l’aritmia e desistere da ulteriori tentativi di ripristino e mantenimento del ritmo sinusale.
  • Storia naturale della FA

La FA è un’aritmia a carattere ricorrente e progressivo che tende ad autosostenersi. All’inizio, si caratterizza (frequentemente ma non sempre) con episodi sporadici e di breve durata, ma nel tempo, evolve verso episodi sempre più frequenti e prolungati, inizialmente a regressione spontanea, poi solo più dopo intervento medico, e infine verso la competa cronicizzazione (ovvero l’aritmia diventa definitiva, senza più possibilità di eliminazione). La progressione da un tipo a un altro di FA è un’evenienza estremamente comune (de facto è quasi la regola) nella pratica clinica. Secondo i dati dell’Euro Heart Survey, il passaggio da una forma di FA parossistica a una forma persistente/permanente si verifica nel 15% dei casi già dopo 1 anno di follow-up (nel 46% l’aritmia diventa persistente e nel 54% permanente) mentre la progressione da una FA persistente a forma permanente si osserva nel 30% dei casi nell’arco del primo anno di follow-up. La probabilità che una forma parossistica evolva in una forma permanente è del 8-9% nel primo anno di follow-up e del 5-5.5% in ogni anno successivo. Con il tempo la stragrande maggioranza dei pazienti sviluppa una FA permanente, mentre solo il 2-3% dei pazienti, di solito con FA “isolata”, continua a manifestare forme parossistiche per decenni, spesso raggruppate nel tempo. In alcuni pazienti, spesso quelli con sottostanti cardiopatie strutturali, l’aritmia può invece già all’esordio mostrare caratteristiche più avanzate, ovvero presentarsi sottoforma di episodi persistenti o, addirittura, persistenti di lunga durata. In questo caso, la progressione verso una forma permanente, in assenza di adeguati e tempestivi interventi terapeutici, è certa e avviene nell’arco di breve tempo. 

 

  • FA asintomatica (o subclinica o silente)

Indipendentemente dalla presentazione iniziale (parossistica o persistente), i pazienti con FA possono avere anche episodi di FA asintomatici. Recenti e ampi studi, che avevano arruolato pazienti con FA e portatori di dispositivi impiantabili (quindi PM, loop-recorder o ICD, tutti dotati di funzione telemetrica e quindi in grado di registrare costantemente il ritmo cardiaco e identificare con grande precisione pressoché qualunque tipo di aritmia), hanno dimostrato che il 28-53% dei pazienti con FA ha anche episodi di FA silente, della durata da pochi minuti a diverse ore, e che questi episodi, nonostante siano asintomatici, aumentano il rischio di ictus dalle 3 alle 6 volte. Ciò ha chiaramente rilevanti implicazioni terapeutiche e va attentamente considerato e discusso con il paziente.

 

  • Diagnosi

La FA è un’aritmia sopraventricolare caratterizzata da una attivazione elettrica rapidissima (400-600 bpm) e totalmente e disorganizzata degli atri, dovuta alla contemporanea presenza di molteplici fronti d’onda che si propagano e collidono in maniera imprevedibile. Poiché la diffusione dell’impulso negli atri è continuamente variabile e irregolare, la risultante funzione meccanica della contrazione atriale è pressoché totalmente assente. La diagnosi di basa sull’esecuzione dell’ECG in corso di aritmia e le sue caratteristiche essenziali sono l’assenza di attività elettrica atriale organizzata e la presenza di una risposta ventricolare generalmente rapida e totalmente irregolare.

  • Manifestazioni cliniche

La fibrillazione atriale (così come il flutter atriale) è una aritmia importante da riconoscere perché, si associa a tre diverse e gravi conseguenze:

  1. Rischio tromboembolico: da un punto di vista meccanico, l’attivazione elettrica rapida e totalmente disorganizzata si traduce in una quasi completa incapacità degli atri a sviluppare una contrazione muscolare efficace con conseguente “immobilità” delle pareti atriali stesse. Come conseguenza finale di tale paralisi atriale, il sangue tenda a “ristagnare” negli atri, portando alla formazione di coaguli che se embolizzano possono diventare causa di ictus.
  2. Scompenso cardiaco: una elevata frequenza cardiaca può determinare una progressiva dilatazione delle camere cardiache con riduzione di efficacia del cuore come pompa e, di conseguenza, insorgenza di sintomi di scompenso cardiaco (edemi declivi, edema polmonare, etc.).
  3. Sintomi: la sintomatologia in corso di FA può essere estremamente eterogenea ed è legata principalmente all’età del paziente, al grado di attività fisica svolta dal paziente e dalla presenza o meno di altre cardiopatie sottostanti. In persone giovani, sane e fisicamente attive un episodio di FA si manifesta tipicamente con sintomi importanti e invalidanti che difficilmente passano inosservati, quali cardiopalmo aritmico, dispnea, astenia, sudorazione, capogiri, molto raramente svenimenti. D’altra parte, invece, in pazienti anziani, con modesta o minima attività fisica ed un eventuale disturbo di conduzione atrio-ventricolare associato, l’aritmia può decorrere totalmente asintomatica, e può essere identificata in modo incidentale, ad esempio eseguendo un ECG per altri motivi, o misurando la pressione con riscontro di un polso irregolare, o magari (caso più temibile ma non così raro) a seguito dell’insorgenza improvvisa di un ictus.

 

  • Prognosi

Le persone affetta da fibrillazione atriale hanno un rischio di morire più alto di 4 volte rispetto a persone di pari sesso ed età. Questo è dovuto all’aumentato rischio di eventi tromboembolici, principalmente ictus, all’aumentato rischio vascolare e metabolico e all’aumentato rischio di scompenso cardiaco, legato alla presenza di una eventuale sottostante cardiopatia strutturale.

 

  • Terapia

Il trattamento si divide in trattamento del rischio tromboembolico e trattamento della fibrillazione atriale vero e proprio.

  1. Trattamento del rischio tromboembolico

La prevenzione del rischio tromboembolico, e quindi principalmente dell’ictus, rappresenta la fase più importante del trattamento della fibrillazione atriale. Il rischio tromboembolico non è uguale per tutti i pazienti ma cambia a seconda della presenza di fattori di rischio, tra cui i principali sono l’età, un precedente TIA/ictus, il sesso femminile, la presenza di ipertensione arteriosa, di diabete mellito, di scompenso cardiaco e di malattia vascolare. Esistono numerosi score che permettono di quantificare con buona approssimazione il rischio annuo di ictus del paziente: il più utilizzato è il CHA2DS2-VASc score. A seconda della presenza di un rischio alto, medio o basso (e contemporanea assenza di controindicazioni assolute) vi sarà indicazione ad avviare o meno una terapia anticoagulante con warfarin/acenocumarolo o con i nuovi farmaci anticoagulanti (dabigatran, rivaroxaban, apixaban, edoxaban), a seconda delle caratteristiche cliniche del paziente e/o delle sue preferenze. L’acido acetilsalicilico, un tempo prescritto nella prevenzione dell’ictus in pazienti con fibrillazione atriale e flutter atriale, ha dimostrato di avere una scarsissima efficacia in questo ambito, per cui, come indicato dalle attuali linee guida, non dovrebbe più essere prescritto con questa indicazione. In pazienti ad elevato rischio tromboembolico e contemporaneo elevato rischio emorragico (o, addirittura, con già un pregresso episodio emorragico importante), una valida alternativa terapeutica alla terapia anticoagulante è l’occlusione percutanea dell’auricola sinistra. Questa strategia terapeutica ha ampiamente dimostrato di avere almeno la stessa efficacia della terapia anticoagulante nella prevenzione degli ictus, con il vantaggio però di non esporre il paziente ad un significativo e permanente rischio di sanguinamento (svantaggio, quest’ultimo, tipico e inalienabile di ogni terapia anticoagulante).

  1. Trattamento della fibrillazione atriale

Il trattamento della fibrillazione atriale si divide in trattamento a breve termine, ovvero della fase acuta, e trattamento a lungo termine.

  1. Trattamento a breve termine

Il trattamento in fase acuta consiste nell’interruzione dell’aritmia mediante la cardioversione, che può essere fatta mediante l’utilizzo di farmaci antiaritmici (da cui cardioversione farmacologica) o mediante l’applicazione di una scossa elettrica al torace del paziente (da cui cardioversione elettrica). La scelta tra uno e l’altro approccio dipende dal tipo di aritmia, dalle condizioni del paziente, dai farmaci che sta già assumendo e dal setting in cui viene eseguita (se in Pronto Soccorso o inelezione in Ospedale).

  1. Trattamento a lungo termine

Il trattamento a lungo termine presupppone la scelta tra due diverse strategie terapeutiche, ovvero il controllo della frequenza ventricolare e il controllo del ritmo. La prima stratega consiste semplicemente nell’accettare l’aritmia, non eseguire alcun tentativo di ripristino del ritmo cardiaco e nel rallentare semplicemente la velocità del cuore (che, abbiamo visto prima, è tipicamente veloce e irregolare in corso di FA). La seconda strategia, ovvero il controllo del ritmo, include tutte le strategie finalizzate all’interruzione dell’aritmia e al mantenimento del normale e fisiologico ritmo sinusale. La scelta tra queste due strategie si basa su tipo di fibrillazione atriale, durata dell’aritmia, sintomatologia del paziente, presenza o meno di significative alterazioni strutturali cardiache e preferenza del paziente. È però molto importante ricordare che la fibrillazione atriale è una aritmia che tende ad auto-mantenersi, ovvero più una persona resta in fibrillazione atriale e più è difficile eliminare tale aritmia. Di conseguenza, mentre la strategia di controllo del ritmo, qualora risultasse inefficace, lascia tranquillamente la possibilità di passare, in seconda battuta, ad una strategia di controllo della frequenza, tale libertà di scelta è generalmente preclusa se si opta, già in prima istanza, per il controllo della frequenza.

  • Controllo della frequenza:

Il controllo della frequenza avviene mediante l’utilizzo di farmaci che rallentano i battiti cardiaci, quindi beta-bloccanti, calcio-anatonisti e digitale, da soli o in associazione. L’obiettivo è avere un battito cardiaco medio a riposo che non superi i 90-100/min. Qualora con i farmaci non fosse possibile raggiungere tale obiettivo e il cuore continuasse a battere troppo velocemente, una ulteriore strategia terapeutica è l’ablazione del nodo atrio-ventricolare e l’impianto di un pacemaker definitivo. In tal modo l’impianto elettrico viene totalmente interrotto e il cuore batterà alla velocità con cui è programmato il pacemaker. Si tratta di una procedura molto semplice, veloce e assolutamente non rischiosa ma che comporta il danneggiamento in maniera definitiva dell’impianto elettrico cardiaco del paziente: in altre parole, non si torna più indietro. Per tale motivo questa strategia va considerata come una “ultima spiaggia”, ricorrendo ad essa solo in rari e selezionati casi.

  • Controllo del ritmo

Il controllo del ritmo avviene o mediante l’utilizzo di farmaci antiaritmici (dronedarone, flecainide, propafenone, sotalolo, amiodarone) o mediante l’ablazione transcatetere. I farmaci mostrano globalmente una efficacia massima di circa 45-55% ad un anno, con tantissimi pazienti che mostrano una o più recidive aritmiche in corso di tali terapie. Ormai una grossa mole di studi scientifici, confrontanti l’efficacia dei farmaci e dell’ablazione transcatetere nel controllo delle recidive aritmiche nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, ha inequivocabilmente mostrato la superiorità dell’ablazione, sia in termini di riduzione del rischio di recidive di fibrillazione atriale, sia in termini di miglioramento della qualità di vita e riduzione della mortalità. Per quanto riguarda i risultati dell’ablazione, questi sono legati principalmente al tipo di fibrillazione atriale, alla durata dell’aritmie e alle dimensioni atriali sinistre. Le percentuali di successo completo sono del 75-85% per la FA parossistica mentre si riducono al 40-60% nelle forme di FA persistenti e persistenti di lunga durata. In circa il 25-35% dei pazienti, per raggiungere tali risultati, vi è la necessità di ripetere la procedura due volte. Nella restante percentuali di pazienti, ovvero 15-25% di quelli con FA parossistica e 40-60% di quelli con FA persistente e persistente di lunga durata (che hanno quindi avuto almeno una recidiva di FA dopo la procedura di ablazione) la stragrande maggioranza mostra pressoché sempre un miglioramento della qualità di vita con una marcata riduzione delle recidive aritmiche. La percentuale di pazienti che non ha alcun beneficio dalla procedura di ablazione e che quindi evolve verso una forma di fibrillazione atriale permanente (di fatto invece quello che succede sempre ai pazienti che non effettuano l’ablazione) si aggira solo sul 6-7% del totale, e quasi tutti questi pazienti avevano una forma di FA persistente di lunga durata già prima dell’ablazione. Per quanto riguarda invece le complicanze, nella nostra casistica, si aggirano sul 1-1.5%, e sono rappresentate principalmente da sanguinamenti a livello degli accessi vascolari femorali e molto raramente da versamento pericardico. Eventi ischemici cerebrali (quindi TIA o ictus) in corso di procedura di ablazione, un tempo relativamente comuni (1-1.5%), sono oggi fortunatamente estremamente rari e quasi aneddotici: il miglioramento della tecnologia a disposizione per eseguire l’ablazione e, soprattutto, il fatto di effettuare la procedura di ablazione senza interrompere l’anticoagulante orale hanno “rivoluzionato” la sicurezza della procedura e abbattuto le complicanze trombo-emboliche (senza aumentare contemporaneamente il rischio di sanguinamenti).

  1. Tachiaritmie ventricolari
  • Ritmo idioventricolare accelerato (RIVA)

Il ritmo idioventricolare accelerato o RIVA è un ritmo ventricolare con frequenza compresa tra 40 e 120 bpm. Insorge a causa di un aumentato automatismo o attività triggerata di una determinata area dei ventricoli e si caratterizza all’ECG per la presenza di un ritmo regolare, a QRS largo, con FC massima di 120 bpm. Si presenta tipicamente in modo intermittente e transitorio, con episodi della durata da pochi secondi a un minuto. Clinicamente, nella stragrande maggioranza dei casi non determina alcun sintomo. Si può osservare alla nascita o in età adulta, sia in persone con cuore sano sia in pazienti con significative cardiopatie (es. infarto miocardico acuto, cardiopatia ischemica cronica, miocardite, cardiopatia reumatica, cardiomiopatia dilatativa idiopatica) o che hanno assunto dosaggi eccessivi di farmaci (es. digossina). Il RIVA si manifesta spesso durante la fase di riperfusione di un infarto miocardico acuto e, in questo contesto, è da considerare un indice di avvenuta ricanalizzazione della coronaria. Il RIVA tipicamente non si associa, di per sé, ad una prognosi negativa per cui non necessita normalmente di alcun trattamento specifico.

La tachicardia ventricolare è un’aritmia ad origine ventricolare, quindi a partenza dal miocardio ventricolare o dal sistema di conduzione sotto-hissiano, caratterizzata da una serie di ≥ 3 battiti ventricolari consecutivi, tipicamente con ventricologramma largo (QRS ≥ 120 ms) e con frequenza compresa tra i 120 e 250 bpm. Storicamente, le tachicardie ventricolari vengono divise in sostenute o non sostenute: le prime sono quelle caratterizzate da una durata ≥ 30 secondi o che necessitano di interruzione per la scarsa tolleranza emodinamica, mentre tutte le altre vengono definite non sostenute (TVNS). Le TVNS sono un gruppo di aritmie presenti in un ventaglio di condizioni cliniche estremamente ampio ed eterogeneo, dal soggetto giovane e sano in cui possono essere identificate con Holter ECG seriati in 0-3% dei casi (e in cui non hanno generalmente nessun significato prognostico negativo), ai pazienti con gravissime cardiopatie sottostanti, in cui si possono identificare in oltre i 75% dei casi (e in questo caso, invece, sono un segno prognostico negativo). Proprio perché generalmente brevi, decorrono frequentemente in maniera totalmente asintomatica o al limite possono causare sporadici e brevi episodi di cardiopalmo. Giacché quindi l’aspetto sintomatologico è tutt’altro che preponderante, la scelta se trattare o meno le TVNS si basa principalmente sul loro eventuale ruolo predittore di aumentato rischio di aritmie ventricolari più lunghe e soprattutto di morte cardiaca improvvisa. La valutazione di un paziente con TVNS presuppone quindi, in primis, la diagnosi dell’aritmia mediante ECG e Holter cardiaco. Lo step successivo è l’esecuzione di un esame di imaging, quindi un ecocardiogramma o una RMN cuore, per confermare o escludere cardiopatie strutturali sottostanti, così come l’esecuzione di un test ergometrico, per valutare il comportamento delle TVNS all’aumentare del tono adrenergico e dello sforzo fisico, e degli esami ematochimici completi. In base al risultato di tali esami, si deciderà se eseguire ulteriori accertamenti diagnostici o se avviare un trattamento, che ripeto, sarà principalmente guidato dalla presenza di una cardiopatia sottostante e dal rischio di futuri eventi aritmici avversi, più che dalla presenza di TVNS in sé.

La tachicardia ventricolare monomorfa sostenuta è una aritmia ad origine ventricolare, caratterizzata da un ritmo regolare con frequenza compresa tra 120 e 250 bpm, ventricologramma largo (QRS ≥ 120 ms), unicità della morfologia dei complessi ventricolari e durata ≥ 30 secondi (o necessità di interruzione per scarsa tolleranza emodinamica). Le TV monomorfe sostenute possono presentarsi in due contesti totalmente diversi, ovvero in pazienti con cuore sano (10%) e in quelli con cardiopatia sottostante (90%). La differenziazione tra queste due forme è essenziale poiché diversissima è la prognosi. Infatti, in pazienti con cuore sano queste aritmie, seppur causa di sintomi importanti e a volte anche invalidanti, non sono pericolose per la vita, cioè non aumentano la mortalità. Nei pazienti invece, con significative cardiopatie strutturali, queste aritmie sono una causa di morte improvvisa e vanno trattate in maniera aggressiva e precoce, anche quando asintomatiche (cosa peraltro piuttosto rara).

Le più comuni forme di TV monomorfe in cuori sani (anche dette idiopatiche) sono le seguenti:

  • TV a partenza dal tratto di efflusso del ventricolo destro (70%)
  • TV a partenza dal tratto di efflusso del ventricolo sinistro (e dalle cuspidi aortiche)
  • TV fascicolari
  • Altre (TV a partenza dall’arteria polmonare, dal fascio di His, dalle cuspidi aortiche, dal seno coronarico, dalle vene cardiache, alla continuità mitro-aortica, dall’anello mitralico o tricuspidalico, dai muscoli papillari, epicardiche)

Si tratta sempre di aritmie focali, cioè in cui il punto di insorgenza dell’aritmia è un’area estremamente limitata (da cui, appunto, “focale”) e l’attivazione procede successivamente in senso centrifugo ad attivare tutte le restanti porzioni ventricolari. I sintomi più comuni sono cardiopalmo, dispnea, astenia, senso di mancamento, sudorazione, raramente dolore toracico, estremamente rara la sincope (che deve suggerire una possibile cardiopatia sottostante o altre comorbilità associate). Quando il numero di aritmie è molto alto, con ripetuti episodi di TV monomorfa sostenuta e frequentissime extrasistoli e lembi di TVNS, si può osservare (come già visto anche per le tachiaritmie sopraventricolari) una progressiva disfunzione cardiaca con riduzione della funzione di pompa del ventricolo sinistro e possibile sviluppo di segni e sintomi di scompenso cardiaco (la cosiddetta “tachicardiomiopatia”). La diagnosi presuppone l’esecuzione di ECG durante il sintomo e l’esclusione di alterazioni cardiache sottostanti. Il trattamento si basa essenzialmente sull’ablazione transcatetere (classe I) che offre percentuali di guarigione (non controllo delle aritmie ma guarigione vera e propria) molto alte (> 90%) con rischio di complicanze ampiamente < al 1.5%. Nei pazienti che rifiutano l’ablazione o in cui l’ablazione non può essere fatta si possono utilizzare i farmaci, tra cui beta-bloccanti, verapamil, flecainide, propafenone.

Come visto in precedenza, la tachicardia ventricolare monomorfa sostenuta è una aritmia ad origine ventricolare, caratterizzata da un ritmo regolare con frequenza compresa tra 120 e 250 bpm, ventricologramma largo (QRS ≥ 120 ms), unicità della morfologia dei complessi ventricolari e durata ≥ 30 secondi (o necessità di interruzione per scarsa tolleranza emodinamica). Nel 90% dei casi queste aritmie occorrono in pazienti con significative cardiopatie strutturali. In questo contesto, infatti, a causa del processo patologico sottostante, parte del normale tessuto muscolare ventricolare cardiaco viene sostituito da tessuto cicatriziale e/o adiposo. Questa alternanza tra tessuto cardiaco sano e tessuto patologico rappresenta il substrato ideale per la formazione di multipli circuiti di rientro che sostengono le tachicardie ventricolari.

Le patologie più comunemente responsabili di questo processo sono la cardiopatia ischemica, quindi un pregresso infarto miocardico, e le patologie primitive del muscolo cardiaco, ovvero le cardiomiopatie. La presentazione clinica, estremamente eterogenea, è influenzata da numerosi fattori tra cui la frequenza della tachicardia ventricolare, la funzione di pompa del cuore, le comorbilità e l’età del paziente. Si va quindi dal semplice cardiopalmo associato a dispnea e astenia allo stato di profonda prostrazione con sudorazione profusa e senso di mancamento, fino ad arrivare alla perdita di coscienza con arresto cardiaco. In quest’ultimo caso, al fine di garantire la sopravvivenza del paziente, è essenziale avvertire subito il 118 e iniziare senza indugio le manovra di rianimazione cardio-polmonare (quindi massaggio cardiaco esterno, ventilazione e, se disponibile, utilizzo del defibrillatore). La diagnosi si basa sulla registrazione ECG dell’aritmia e sulla identificazione della cardiopatia sottostante, mediante ecocardiogramma o risonanza magnetica cardiaca.  In casi dubbi, ad esempio in pazienti con importanti cardiopatie strutturali e sintomi suggestivi per aritmie sostenute, lo studio elettrofisiologico, tramite l’inducibilità dell’aritmia, consente di confermare la diagnosi e fornisce importanti informazioni in merito al meccanismo dell’aritmia e alla sua prognosi. Da un punto di vista prognostico, infatti, la presenza di una tachicardia ventricolare sostenuta in pazienti con cardiopatia strutturale rappresenta un elemento molto negativo e conferisce al paziente un elevato rischio di morte. Di conseguenza, in questi casi, è essenziale avviare un trattamento efficace ed aggressivo, il più presto possibile. Il trattamento, in fase acuta, consiste nell’interrompere l’aritmia mediante l’utilizzo di farmaci (amiodarone, lidocaina o mediante blocco farmacologico del ganglio stellato) o, cosa di gran lunga più comune, mediante la cardioversione elettrica. Il trattamento in fase cronica consiste invece nel trattare tutte le cause predisponenti (le alterazioni elettrolitiche, l’ipossia, l’acidosi, etc), la cardiopatia sottostante (quindi mediante coronarografia e angioplastica in caso di cardiopatia ischemica o mediante l’ottimizzazione della terapia medica, in caso di altra forma di cardiopatia), l’impianto di un defibrillatore impiantabile (queste tachicardie ventricolari monomorfe in cuori con alterazioni strutturali aumentano molto il rischio di arresto cardiaco e morte cardiaca improvvisa, e in questo setting, il defibrillatore è la strategia più efficace nel prevenire tali eventi avversi catastrofici), l’utilizzo di farmaci antiaritmici (beta-bloccanti, sotalolo, amiodarone, mexiletina) e l’ablazione transcatetere. In questo contesto, l’ablazione ha ampiamente dimostrato di essere più efficace della terapia antiaritmica nella riduzione delle recidive aritmiche nei pazienti portatori di defibrillatore che hanno avuto interventi da parte del dispositivo su tachicardie ventricolari  (classe I). Nei pazienti invece con tachicardia ventricolare incessante, ovvero con una aritmia che non si riesce ad interrompere in nessun modo e con nessun farmaco, l’ablazione è l’unica strategia disponibile ed è assolutamente salvavita (classe I). Per quanto riguarda il successo dell’ablazione, inteso come assenza di recidive di TV ad un follow-up medio di 2 anni, questo si aggira sul 50-70% nei pazienti con cardiopatia ischemica, con un tasso di complicanze < 5%. Per quanto riguarda invece i risultati in pazienti con cardiomiopatia dilatativa idiopatica, il successo a due anni di follow-up è del 40-60% con un tasso di complicanze del 4-7%. Si tratta senza dubbio di percentuali di successo e complicanze ben diverse da quelle viste in precedenza e che potrebbero sembrare insoddisfacenti: almeno in parte, sicuramente lo sono, non essendo lontanamente paragonabili ai risultati che l’ablazione ha ottenuto nel trattamento delle altre aritmie. Ma questa differenza è dovuta alla complessità della procedura, nel dover modificare il substrato all’interno di un ventricolo, spesso profondamente malato, in un paziente spesso fragile, delicato e con molteplici comorbilità.

  • Tachicardia ventricolare polimorfa

Si tratta di una particolare forma di tachicardia ventricolare in cui la sequenza di attivazione cambia costantemente, in ampiezza, asse e durata, come conseguenza della presenza di molteplici foci di attivazione. Le cause più comuni sono l’ischemia miocardica acuta (quindi, tipicamente, la fase iniziale di un infarto miocardico), le malattie dei canali ionici (es. sindrome di Brugada) e la cardiomiopatia ipertrofica. I sintomi dipendeno principalmente dalla durata dell’aritmia: se breve può decorrere in maniera totalmente asintomatica o causare cardiopalmo; se prolungata può causare perdita di coscienza e anche arresto cardiaco. In questo caso, il pronto trattamento con rianimazione cardiopolmonare e defibrillazione è necessario per garantire la sopravvivenza del paziente. La gestione clinica, invece, al di fuori dell’eventi acuto che richiede pressochè sempre la cardioversione elettrica (o la defibrillazione elettrica), è finalizzata a identificare e trattare le cause sottostanti che l’hanno scatenata.

  • Torsione di punta (TdP)

La torsione di punta è una particolare forma di tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS molto rapidi che variano progressivamente in ampiezza e morfologia, oscillando intorno alla linea isoelettrica. Ciò che la caratterizza rispetto alla TV polimorfa, a parte il peculiare aspetto ECG, è il fatto che per definizione compare in un contesto di QT lungo, congenito o acquisito. Nel primo caso, il QT lungo congenito, è una malattia dei canali ionici a carattere genetico ed ereditario, caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT (espressione del tempo di depolarizzazione e ripolarizzazione dei ventricoli) intrinsecamente più lungo rispetto ai tipici range di normalità (QTc normale compreso tra 0.30”-0.44”, QTc lungo se > 0.44”), in assenza di cause o fattori secondari che possano a loro volta aumentare il QT. Nel secondo caso, invece, il QT è allungato come conseguenza della presenza di fattori scatenanti acquisiti quali i disturbi dell’equilibrio idro-elettrolitico (ipokaliemia, ipomagnesemia e ipocalcemia), l’assunzione di farmaci (antiaritmici, antistaminici, antidepressivi, antipsicotici, alcuni antibiotici, etc.) o la bradicardia marcata. La sintomatologia è sovrapponibile a quella delle TV polimorfe, quindi nei casi brevi a risoluzione spontanea (che generalmente sono i più comuni) i pazienti possono essere asintomatici o avvertire cardiopalmo, lipotimie e sincope. Nei casi prolungati vi può essere degenerazione in fibrillazione ventricolare (FV) con arresto cardiaco ed eventuale morte, se non immediatamente trattata. Il trattamento presuppone la defibrillazione in caso di arresto cardiaco o instabilità emodinamica, l’utilizzo del solfato di magnesio e/o la stimolazione temporanea ad elevata frequenza in caso di bradicardia marcata con episodi recidivanti, e, soprattutto, la correzione delle cause sottostanti.

  • Flutter ventricolare

Il flutter ventricolare è una aritmia cardiaca ad insorgenza dai ventricoli caratterizzata da una attività elettrica molto rapida, normalmente tra 250-350 bpm. La diagnosi è elettrocardiografica e si caratterizza per la presenza all’ECG di un’onda sinusoidale senza una chiara distinzione tra QRS e onda T. Può essere presente raramente come aritmie primaria e sostenuta, senza predilezione alcuna per l’età, e in questi casi avviene pressoché sempre in pazienti con significative cardiopatie strutturali e/o elettriche, o in corso di stimolazione programmata ventricolare, nel contesto di uno studio elettrofisiologico. Nella stragrande maggioranza dei casi rappresenta però una fase di transizione tra una tachicardia ventricolare e la fibrillazione ventricolare. Clinicamente l’elevatissima frequenza ventricolare determina una contrazione meccanica inefficace dei ventricoli con conseguente caduta della portata cardiaca, perdita di coscienza e arresto cardiaco. Al fine di garantire la sopravvivenza del paziente è necessario avviare prontamente le manovre di rianimazione cardio-polmonare e la defibrillazione del paziente. La gestione clinica, invece, al di fuori dell’eventi acuto, come per la tachicardia ventricolare polimorfa e la fibrillazione ventricolare, è finalizzata a identificare e trattare le cause sottostanti che l’hanno scatenata.

  • Fibrillazione ventricolare

La fibrillazione ventricolare (FV) è una aritmia caratterizzata da una attività elettrica ventricolare totalmente desincronizzata, quindi caotica e irregolare, tale per cui i ventricoli sono percorsi e attivati simultaneamente da molteplici fronti d’onda, che costantemente collidono e si frammentano, attivando ciascuno piccole porzioni di miocardio ventricolare, in maniera del tutto disordinata. La diagnosi è elettrocardiografica con il riscontro di onde del tutto irregolari, sia per forma che per ampiezza e durata, in cui non è assolutamente possibile discernere la depolarizzazione dalla ripolarizzazione ventricolare. Da un punto di vista meccanico, questa attivazione elettrica disorganizzata determina una assenza di contrazione ventricolare con conseguente crollo della portata cardiaca, rapidissima perdita di coscienza (in pochi secondi) e morte in qualche minuto se non si interviene prontamente con le manovre di rianimazione cardio-polmonare e la defibrillazione precoce. Sebbene possa comparire, seppur molto raramente, anche in persone con cuore strutturalmente sano, nella stragrande maggioranza dei casi si presenta in pazienti con significative cardiopatie strutturali e/o elettriche (nei paesi occidentali e tipicamente oltre i 50 anni di età la cardiopatia ischemica è la causa di gran lunga più comune), in corso di gravi alterazioni elettrolitiche, intossicazione da farmaci o in corso di stimolazione programmata ventricolare, nel contesto di un studio elettrofisiologico. La fibrillazione ventricolare è l’aritmia alla base della “morte cardiaca improvvisa” (dall’inglese, sudden cardiac death, SCD). La morte cardiaca improvvisa è un evento catastrofico, non affatto raro: è infatti causa di oltre 350.000 decessi all’anno negli USA, 65.000 nella sola Germania, rappresenta circa il 10% di tutte le morti in Europa e nel Nord America e, in Italia, colpisce ogni anno oltre 1000 giovani con età inferiore a 35 anni. Le cause sottostanti sono molteplici e cambiano in frequenza a seconda della fascia di età, della sede geografica e delle caratteristiche della popolazione considerata. Globalmente circa il 75% di tutti i casi di morte cardiaca improvvisa sono dovuti a qualche forma di cardiopatia ischemica (quindi un infarto miocardico acuto), il 15% alla presenza di una cardiomiopatia strutturale (cardiomiopatia dilatativa, cardiomiopatia ipertrofica e cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro), il 2% alle malattie dei canali ionici (sindrome del QT lungo, sindrome di Brugada, sindrome da ripolarizzazione precoce, tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica, sindrome del QT corto), il 5% alle cardiopatia valvolari (stenosi aortica severa, in primis), il restante 3% ad altre cardiopatie (es. miocarditi, etc.). Sfortunatamente, in circa il 55% dei casi, la morte cardiaca improvvisa rappresenta la manifestazione clinica d’esordio e la sottostante e responsabile malattia di base diventa nota solo all’indagine autoptica, dopo il tragico e fatale evento. Gli atleti professionisti, per il notevolissimo stress a cui è sottoposto il cuore e, purtroppo, anche per una capacità di identificare eventuali cardiopatie ancora non ottimale, sono una sottocategoria caratterizzata da un rischio di tale evento particolarmente elevato, da 2 a 4 volte più alto rispetto alla popolazione generale. Per quanto riguarda la prevenzione, uno stile di vita sano caratterizzato dall’abolizione del fumo, l’assunzione di modeste quantità di alcool, un sano regime alimentare e una regolare e costante attività sportiva sono i migliori elementi per prevenire la cardiopatia ischemica e ridurre quindi la maggior parte dei casi di morte cardiaca improvvisa. Per quanto riguarda invece le persone che intraprendono un’attività sportiva, soprattutto se intensa, un’attenta valutazione medica a priori, caratterizzata anche dall’esecuzione di un ECG e un ecocardiogramma, rappresentano uno step importante per escludere o evidenziare in anticipo “almeno” grossolane forme di cardiopatia strutturale e/o elettrica, anche se clinicamente ancora silenti. Nei pazienti, invece, sopravvissuti ad un arresto cardiaco (e in questo caso si parla di “morte cardiaca improvvisa abortita”) o con qualche cardiopatia sottostante e contemporaneo elevato rischio di morte cardiaca improvvisa, il trattamento principe consiste nel posizionamento di un defibrillatore impiantabile che, mediate l’erogazione di un impulso elettrico intra-cardiaco, in caso di FV, è in grado di interrompere tale aritmia, ripristinare il normale ritmo sinusale e garantire la sopravvivenza del paziente.

ALTRO

  1. Extrasistolia sopraventricolare

Le extrasistoli sopraventricolari (CPSV) sono battiti determinati da impulsi prematuri, quindi che intervengono in anticipo rispetto alla normale cadenza del ritmo cardiaco, e che originano non nel nodo seno-atriale bensì in un qualunque struttura cardiaca posta al di sopra dei ventricoli (vena cava superiore o inferiore, atri, vene polmonari, giunzione atrio-ventricolare). Le extrasistoli atriali sono di gran lunga le più frequenti tra le extrasistoli sopraventricolari, e, in assoluto, sono uno dei più comuni disturbi del ritmo cardiaco. Le cause più comuni sono: intenso stress psico-fisico, l’abuso di sostane eccitanti (caffè, fumo, alcool, bevande energetiche ad alto contenuto di caffeina e taurina), l’uso di sostanze stupefacenti (cocaina), la presenza di malattia extra-cardiache (quali distiroidismi, disturbi digestivi, etc.) e la presenza di una eventuale cardiopatia strutturale sottostante (es. cardiopatia ipertensiva). Talvolta sono la spia della presenza di un’altra aritmia, ad esempio flutter atriale e fibrillazione atriale. Possono comunque essere osservate anche in pazienti con cuore sano, ma in questi casi le extrasistoli sono tipicamente rare, non precoci, generalmente isolate, e rappresentano un riscontro del tutto accidentale. Per quanto riguarda la sintomatologia, questa è legata al numero delle extrasistoli ma soprattutto alla sensibilità della singola persona. Vi sono pazienti che lamentano sensazione di un battito anticipato o di una pausa, altre che lamentano percezione del battito nel collo o uno “sfarfallio di ali nel petto”. Altri invece lamentano brevi episodi di cardiopalmo, vertigini, astenia o dispnea. Vi sono inoltre persone con oltre 10.000 CPSV al giorno che non lamentano alcun sintomo mentre altre, con meno di 500 CPSV al giorno, che hanno una profonda, fastidiosa e costante percezione di ognuno di essi. La diagnosi richiede la documentazione delle extrasistoli mediante ECG e/o Holter ECG. L’iter diagnostico, oltre a identificare l’aritmia in sé, presuppone l’esclusione di eventuali cardiopatie sottostanti così come l’identificazione di fattori scatenanti. Essendo una patologia essenzialmente benigna, il trattamento è finalizzato alla cura delle patologie associate (cardiache ed extra-cardiache) e al controllo dei sintomi. Quest’ultimo step può essere raggiunto mediante l’utilizzo di farmaci, quali beta-bloccanti e farmaci antiaritmici (flecainide, propafenone e sotalolo), o in caso di inefficacia della terapia farmacologica o per scelta del paziente, mediante ablazione transcatetere del focus ectopico che, in pazienti con adeguato numero di extrasistoli, si associa ad elevate percentuali di successo (>95%) con tasso di complicanze estremamente basso (<0.5%). Nei pazienti, infine, con rare o sporadiche CPSV, cuore sano e assenza di fattori funzionali chiaramente correggibili, non vi è necessità di alcun trattamento specifico.

  1. Extrasistolia ventricolare

Le extrasistoli ventricolari (CPV) sono battiti determinati da impulsi prematuri, quindi che intervengono in anticipo rispetto alla normale cadenza del ritmo cardiaco, e che originano nei ventricoli. (destro o sinistro). Le CPV sono estremamente comuni nella pratica clinica e la frequenza del loro riscontro aumenta con l’aumentare dell’età. Infatti, si possono osservare in circa l’1% delle persone che eseguono un normale ECG di controllo e nel 40-75% dei soggetti sottoposti ad un Holter ECG. Le CPV possono quindi essere classificate come monomorfe, se sono tutte della stessa morfologia (e quindi originano sempre dalla stessa area ventricolare), o polimorfe, quando invece i focolai sono multipli (segno questo di un interessamento più diffuso dei ventricoli, quindi spesso patologico). Possono essere tardive, quindi cadere al termine dell’onda T, o precoci, cioè cadere sull’apice dell’onda T precedente, e in questo caso si parla di fenomeno “R su T” (sono le più rare e pericolose, possono essere causa di FV). Possono essere più o meno numerose (da < 10 a > 30.000 al giorno) e possono, infine, essere isolate o ripetitive (in coppie, triplette, lembi di bigeminismo, trigeminismo o organizzate in TVNS). Sebbene le CPV possano potenzialmente originare da qualunque parte dei ventricoli, nella stragrande maggioranza dei casi esse sono monomorfe e originano da zone ben specifiche dei ventricoli, principalmente i tratti di efflusso ventricolari (destro e sinistro e relative aree di contiguità anatomica) o dai fascicoli del ventricolo sinistro. Come visto in precedenza le CPV possono comparire in persone sane ma spesso, così come le CPSV, si associano alla presenza di fattori scatenanti, quali intenso stress psico-fisico, l’abuso di sostane eccitanti (caffè, fumo, alcool, bevande energetiche ad alto contenuto di caffeina e taurina), l’uso di sostanze stupefacenti, l’assunzione di determinati farmaci (digossina, antidepressivi triciclici), le alterazioni elettrolitiche (ipercalcemia, ipopotassiemia, ipomagnesiemia), l’insufficienza respiratoria (ipercapnia, ipossia) e le alterazioni endocrinologiche (ipertiroidismo). A volte, soprattutto quando sono polimorfe e con morfologia del QRS non “ortodossa” (cioè non originano dalle più comuni sedi precedentemente indicate), sono spesso spia della presenza di una cardiopatia sottostante (cardiopatia ipertensiva, cardiopatia ischemica, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, cardiomiopatia ipertrofica, cardiomiopatia dilatativa idiopatica, etc.). Anche in questo contesto, la sintomatologia è legata al numero delle extrasistoli ma soprattutto alla sensibilità della singola persona. Vi sono pazienti che lamentano sensazione di un battito anticipato o di una pausa, altre che riferiscono la percezione del battito nel collo o di uno “sfarfallio di ali nel petto”. Altri, ancora, lamentano invece brevi episodi di cardiopalmo, vertigini, astenia e dispnea. Alcuni sono, infine, del tutto asintomatici. Da un punto di vista prognostico, le CPV monomorfe in cuore sano sono un’aritmia assolutamente benigna. Le CPV polimorfe meritano sempre invece un’attenta analisi per escludere alterazioni strutturali cardiache e la prognosi in questi casi è legata alla problematica sottostante più che alle CPV per sé. Importante, le CPV quando sono molto frequenti (mediamente > 10.000/die, quindi > 10% del burden totale dei battiti cardiaci nelle 24 ore) possono associarsi in oltre il 30% dei casi ad una tachicardiomiopatia, ovvero una progressiva disfunzione cardiaca con possibile scompenso cardiaco. La diagnosi presuppone la documentazione delle CPV con un ECG a 12 derivazioni che permette una più o meno precisa localizzazione dell’area di insorgenza e un Holter ECG per valutarne le altre caratteristiche essenziali. Il successivo step diagnostico è quindi escludere la presenza di eventuali cardiopatie strutturali, mediante l’esecuzione di una tecnica di imaging quale ecocardiogramma o RMN cuore, e valutarne il comportamento sotto sforzo mediante un test ergometrico. Il trattamento si basa sui sintomi e, in assenza di essi, sul numero delle CPV e sulla funzione di pompa del cuore. Si curano, quindi, i pazienti sintomatici, e in assenza di sintomi quelli con tachicardiomiopatia o ad alto rischio di tachicardiomiopatia. Nei pazienti sintomatici, il primo trattamento è rappresentato dai farmaci beta-bloccanti. In alternativa ad essi o in caso di inefficacia, l’ablazione transcatetere del focus ectopico è la strategia di scelta, caratterizzata da alta efficacia (≥90-95%) e bassissime complicanze (<1-1.5%). Altri farmaci (flecainide,  propafenone, sotalolo e amiodarone) sono solo una seconda scelta, e vista la scarsa efficacia e i significativi effetti collaterali, vanno riservati casi particolari. Nei pazienti asintomatici, CPV frequenti (> 10.000/die) e tachicardiomiopatia (già presente o ad alto rischio), l’ablazione transcatetere rappresenta la strategia di scelta perché permette quasi sempre, mediante l’eliminazione del focus ectopico, la progressiva normalizzazione della funzione meccanica cardiaca.

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