Procedure e terapie aritmologiche
Il trattamento delle aritmie è un percorso complesso che richiede un ampio bagaglio di conoscenze teoriche, la disponibilità di sale di interventistica cardiovascolare con materiali e tecnologie all’avanguardia e personale medico dotato di grande esperienza e professionalità in questo specifico ambito. Oggi, grazie allo studio elettrofisiologico, al posizionamento di dispositivi cardiaci impiantabili e, soprattutto, all’ablazione transcatetere, pressoché tutte le aritmie cardiache possono essere diagnosticate ed efficacemente trattate. E quasi sempre, anche guarite!
Procedure e terapie aritmologiche
Cardioversione elettrica (CVE)
La cardioversione elettrica esterna è una procedura estremamente semplice che si utilizza per interrompere una aritmia. Consiste nell’applicazione di uno shock elettrico esterno a corrente continua tale da resettare completamente l’attività elettrica cardiaca, interrompendo così l’aritmia. A ciò segue la spontanea ripresa del normale ritmo cardiaco. Può essere eseguita come procedura elettiva, quindi programmata in anticipo, o in urgenza, comunemente in Pronto Soccorso. Essendo l’applicazione di uno shock elettrico al torace una manovra dolorosa, durante la cardioversione il paziente viene brevemente sedato in modo che non senta alcun dolore nè fastidio. Dopo pochi minuti l’effetto dell’anestesia termina e il paziente sarà nuovamente cosciente e in grado di andare a casa. La cardioversione si utilizza ogni qual volta si voglia interrompere una aritmia persistente (quindi si utilizza in caso di tachicardia sopraventricolare, fibrillazione ventricolare e/o tachicardie ventricolari, etc). Si tratta di una manovra estremamente sicura che può essere utilizzata anche nelle donne in gravidanza.
Impianto di dispositivi cardiaci: PM, PM leadless, ICD, S-ICD, CRT-P/D, loop-recorder
I dispositivi cardiaci impiantabili sono dei dispositivi elettronici che vengono impiantati sottopelle o sottomuscolo al fine di registrare anomalie del ritmo, trattare le bradiaritmie e/o interrompere le aritmie ventricolari pericolose per la vita. Le tipologie più comuni con i relativi aspetti procedurali di impianto sono i seguenti:
- Loop-recorder: si tratta di un dispositivo di piccolissime dimensioni, costituto da un contenitore metallico esterno al cui interno vi sono la batteria e la circuiteria elettronica, sprovvisto di elettrocateteri. Si inserisce nel sottocute, con una minima incisione cutanea in anestesia locale, nelle zone limitrofe all’area cardiaca. Ha una batteria che dura fino a 3 anni circa e durante tale periodo è in grado di registrare con ECG qualunque aritmia il paziente dovesse avere. L’interrogazione del dispositivo si può fare sia in remoto che mediante controlli ambulatoriali. È pienamente compatibile con esami di risonanza magnetica.
- Pacemaker (PM): un pacemaker è un dispositivo costituito da uno o più elettrocateteri e un corpo principale metallico, con all’interno la batteria e la circuiteria elettronica. L’impianto di un pacemaker è una procedura estremamente semplice, si effettua in anestesia locale e richiede una micro-incisione in regione sottoclaveare (generalmente 2-3 cm), la creazione di una tasca sottocutanea o sottomuscolare dove alloggiare il dispositivo, la puntura della vene della spalla (vena succlavia o vena cefalica) con il successivo avanzamento degli elettrocateteri in posizioni specifiche del cuore, il collegamento degli elettrocateteri stessi al corso principale del pacemaker, e infine la chiusura della ferita con punti riassorbibili. Il dispositivo è da subito funzionante e la sua longevità è mediamente compresa tra i 5 e i 10 anni. Il dispositivo può essere controllato sia in remoto che mediante controllo ambulatoriale. Tutti i recenti pacemaker sono pienamente compatibili con esami di risonanza magnetica.
- Pacemaker leadless: si tratta di un particolare tipo di pacemaker, caratterizzato dalle piccolissime dimensioni e sprovvisto di elettrocateteri. Mediante la puntura della vena femorale destra a livello dell’inguine, per via percutanea, il dispositivo viene fatto avanzare al cuore attraverso un introduttore lungo dedicato e giunto al cuore lo si aggancia alle pareti cardiache mediante delle barbette di cui è provvisto. Il posizionamento è per via percutanea. Non richiede quindi né incisione chirurgica nella zona della spalla né il posizionamento di cateteri dentro l’asse vascolare venoso. Le principali indicazioni all’impianto di questo dispositivo sono nei pazienti con accessi vascolari superiori di difficile accesso o completamente obliterati e in pazienti ad elevato richio infettivo. Al di là dell’aspetto procedurale di impianto unico, il resto del funzionamento è analogo a quello di un comune pacemaker, con durata della batteria variabile dai 5 ai 10 anni, necessità di monitoraggio in remoto e/o mediante controlli ambulatoriali, ed è pienamente compatibile con esami di risonanza magnetica.
- Defibrillatore impiantabile (ICD): si tratta di un dispositivo simile ad un pacemaker ma con in più la capacità di riconoscere ed interrompere aritmie ventricolari pericolose per la vita, mediante uno shock elettrico ad elevata energia. La procedura di impianto è sovrapponibile a quella di un normale pacemaker, la durata della batteria anche qui è variabile tra i 5 e i 10 anni, ed è pienamente compatibile con esami di risonanza magnetica.
- Pacemaker/defibrillatore biventricolare (CRT-P/D): si tratta di un normale pacemaker o defibrillatore, dotato semplicemente di un elettrocatetere in più, che viene posizionato in un ramo laterale del seno coronarico e mediante questa posizione permette di stimolare contemporaneamente sia il ventricolo destro che quello sinistro. Questa stimolazione bi-ventricolare, in pazienti con blocco di branca sinistro e disfunzione sistolica cardiaca, ha ampiamente dimostrato di aumentare l’efficienza cardiaca, migliorando significativamente la funzione di pompa del cuore. La procedura di impianto è tecnicamente simile a quella di ogni altro pacemaker o defibrillatore, con la differenza che verrà posizionato un elettrocatetere in più, all’interno del sistema venoso del cuore. Durata della batteria, necessità di monitoraggio remoto o ambulatoriale e compatibilità con esami di risonanza magnetica sono analoghi a quelli di ogni altro PM o ICD moderno.
- Defibrillatore sottocutaneo (S-ICD): si tratta di una forma più recente ed evoluta di ICD caratterizzato dal fatto che l’elettrocatetere non viene posizionato dentro il cuore attraverso il torrente circolatorio ma nella regione sottocutanea dell’emitorace sinistro e il corpo dell’ICD si posiziona in regione ascellare e non sotto la clavicola. Il grande vantaggio di questi dispositivi è che evitano completamente di dover posizionare degli elettrocateteri dentro il torrente circolatorio con marcata riduzione del rischio di infezioni e di rottura dell’elettrocatetere stesso. La durata della batteria, le regole di condotta post-impianto così come la tempistica dei controlli ambulatoriali e remoti sono analoghe a quella di un comune ICD.
Impianto di dispositivi per la modulazione della contrattilità cardiaca (CCM)
Il CCM, o dispositivo per la modulazione della contrattilità cardiaca, è un sistema innovativo di stimolazione cardiaca che si utilizza nel trattamento dello scompenso cardiaco. Si tratta essenzialmente di un dispositivo simile ad un comune pacemaker in cui però gli impulsi elettrici vengono erogati durante il periodo refrattario assoluto dei ventricoli, non determinando quindi la contrazione cardiaca. Numerosi studi sperimentali hanno dimostrato come la stimolazione elettrica delle cellule cardiache durante il loro periodo refrattario aumenti il rilascio di calcio intracellulare con conseguente aumento della contrattilità cardiaca e miglioramento della funzione di pompa del cuore. ll dispositivo è inoltre caratterizzato da una elevata longevità della batteria (circa 15 anni) grazie ad una innovativa tecnologia che consente la ricarica dall’esterno attraverso il posizionamento di una bobina ad induzione sulla pelle del paziente, in corrispondenza del dispositivo. Per quanto riguarda infine i controlli ambulatoriali, vanno svolti mediamente ogni 6 mesi.
Estrazione di elettrocateteri
Gli elettrocateteri che si utilizzano con i pacemaker e i defibrillatori sono costituiti da un conduttore rivestito da materiale isolante, che unisce fisicamente ed elettricamente il pacemaker al cuore. Nella stragrande maggioranza dei casi l’elettrocatetere, dopo l’iniziale posizionamento, continuerà a funzionare in maniera corretta e non verrà quindi mai più rimosso dal sistema cardiovascolare del paziente. A volte, invece, a causa di infezioni o rotture meccaniche, diventa necessario rimuovere questi elettrocateteri. Se un elettrocatetere rimane dentro il paziente per oltre un anno si creeranno delle tenaci aderenze tutto intorno al suo decorso per cui la rimozione dell’elettrocatetere stesso non potrà più semplicemente essere fatta mediante trazione ma facendo passare delle cannule cave dotate di punta affilata intorno agli elettrocateteri stessi in modo da scollare e dissecare progressivamente tutte le aderenze formatesi in precedenza. L’avanzamento di queste cannule, oltre a ledere il tessuto cicatriziale e a liberare l’elettrocatetere, a volte può causare il danneggiamento della parete stessa dei vasi e/o del cuore, con conseguente rischio di sanguinamenti, a volte anche molto pericolosi. L’estrazione è quindi una procedura pericolosa, assolutamente non scevra da rischi anche letali, che può essere eseguita solo in pochi centri selezionati, adeguatamente attrezzati, con provata esperienza e con disponibilità immediata di cardiochirurgia.
Studio elettrofisiologico transesofageo (SETE)
Lo studio elettrofisiologico transesofageo (SETE) è un particolare tipo di studio elettrofisiologico che si esegue avanzando in esofago (attraverso il naso o la bocca) fino dietro al cuore un piccolo catetere dotato di elettrodi, in grado di stimolare il cuore e percepirne l’attività elettrica. Poiché permette l’accesso al solo atrio sinistro, il SETE è in grado di fornire solo alcune, ma non tutte, le informazioni relative all’impianto elettrico cardiaco e all’inducibilità di aritmie. È un esame innocuo e non rischioso, seppur lievemente fastidioso, e trova oggi indicazione pressoché solo nei bambini (dove si preferisce evitare, quando possibile, lo studio elettrofisiologico classico con accesso percutaneo).
Studio elettrofisiologico (SEF)
Lo studio elettrofisiologico endocavitario (SEF) è l’esame principe per la valutazione dell’impianto elettrico cardiaco e per lo studio delle aritmie cardiache. Tecnicamente, consiste nell’inserimento per via percutanea, ovvero attraverso la puntura in anestesia locale delle vene femorali a livello inguinale, di piccoli sondini, detti cateteri, della dimensione di circa 1-2 mm, all’interno del cuore. Questi cateteri sono dotati di elettrodi e possono sia registrare l’attività elettrica cardiaca che stimolare il cuore. Posizionando questi cateteri in punti particolari del cuore e usando protocolli di stimolazione particolari si può studiare con precisione il funzionamento dell’impianto elettrico cardiaco e fare diagnosi di certezza di una moltitudine di aritmie. Si tratta quindi di un esame meno fastidioso del SETE (non richiede infatti l’introduzione di alcun materiale nelle vie aeree e in faringe), che fornisce molte informazioni in più di quest’ultimo (è infatti possibile stimolare e registrare i potenziali cardiaci in qualunque punto del cuore, non solo in atrio sinistro) ed estremamente sicuro
Ablazione transcatetere
Ablazione transcatetere con approccio convenzionale vs. approccio ”a raggi zero”
Queste due espressioni, convenzionale o “a raggi zero”, si riferiscono alle tecniche di imaging che vengono utilizzate in Elettrofisiologia Cardiaca per visualizzare i cateteri e le diverse strutture cardiache durante le procedure di ablazione. Con l’approccio convenzionale si utilizza la fluoroscopia e quindi i raggi X. Si tratta del sistema classico, da sempre utilizzato in ogni ambito della cardiologia interventistica (e per molte branche interventistiche mediche, ad esempio l’emodinamica, la radiologia interventistica e la chirurgia vascolare, anche l’unico a disposizione) per guidare gli interventi. I vantaggi sono legati al fatto che la fluoroscopia è disponibile in ogni ospedale, fornisce immagini in tempo reale ed è molto economica. Gli svantaggi sono legati al fatto che le immagini prodotte sono solo bidimensionali ma, soprattutto, il fatto che il paziente viene esposto significativamente a radiazioni ionizzanti. Con l’approccio a “raggi zero”, invece, si utilizzano sistemi di mappaggio elettroanatomici che, mediante l’utilizzo di campi magnetici o di dati impedenziometrici, permettono la visualizzazione dei cateteri e del cuore, senza utilizzo di radiazioni ionizzanti. Sono sistemi che, oltre a evitare l’esposizione radiologica al paziente (e a tutto il personale di sala), forniscono dettagliate immagini tridimensionali, sia anatomiche che funzionali. Principale svantaggio è il costo più elevato e la disponibilità di tali tecnologie solo presso pochi centri selezionati. All’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino abbiamo la disponibilità di tutti i sistemi di mappaggio elettroanatomici presenti in commercio.
Ablazione transcatetere delle tachicardie parossistiche sopraventricolari
Come abbiamo visto nel capitolo delle tachiaritmie sopraventricolari, le tachicardie parossistiche sopraventricolari sono un gruppo eterogeneo di aritmie che causano episodi di batticuore improvvisi (da cui parossistico), più frequenti nelle donne e tipicamente (anche se non esclusivamente) nelle persone con cuore strutturalmente sano. L’ablazione di queste aritmie è stata introdotta negli anni 80 ed è quindi, in ambito ablativo, la procedura di cui si ha maggiore esperienza e pratica. La procedura prevende all’inizio sempre l’esecuzione di uno studio elettrofisiologico, con posizionamento dei cateteri mediante accesso percutanea femorale destro e sinistro in anestesia locale, mediante il quale mediante determinati protocolli di stimolazione cardiaca si induce l’aritmia e se ne conferma la diagnosi. A questo punto, a seconda del tipo di aritmia indotta, delle caratteristiche anatomiche ed età del paziente, si decide se proseguire ed effettuare l’ablazione in maniera convenzionale, quindi con la solo guida fluoroscopica, o “a raggi zero”, e se utilizzare un ablatore a radiofrequenza (quindi a caldo) o con crio-energia (a freddo). Una volta effettuata l’ablazione si ripeterà lo studio elettrofisiologico e in assenza di ulteriore inducibilità di aritmie si terminerà la procedura, rimuovendo i cateteri e gli introduttori dal paziente, lasciando in situ generalmente solo un piccolo bendaggio a piatto (non compressivo).
– Queste procedure richiedono una lunga degenza in ospedale?
Queste procedure possono essere eseguite tranquillamente in Day-Hospital quindi il paziente entra in ospedale la mattina e il pomeriggio stesso viene dimesso al domicilio. Vale sempre la regola prudenziale si evitare sforzi per circa 3 giorni, trascorsi i quali il paziente può riprendere normalmente la sua vita quotidiana.
– Quali sono le percentuali di successo e le complicanze?
L’ablazione delle TPSV è quella procedura ablativa che presenta i migliori risultati in assoluto, con percentuali di successo dopo una singola procedura > 95% quando si utilizza la radiofrequenza e del 80-85% quando si utilizza la crio-energia. Con una eventuale seconda procedura, l’aritmia viene eliminata nella pressoché totalità dei pazienti, con entrambe le forme di energia. Le complicanze, nella nostra casistica, sono ampiamente < 1% (e nessuna di esse è pericolosa per la vita del paziente).
Ablazione transcatetere della fibrillazione atriale con radiofrequenza
– Quali sono le indicazioni all’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale?
L’indicazione all’ablazione si basa su tipo di fibrillazione atriale, durata dell’aritmia, sintomatologia del paziente, presenza o meno di significative alterazioni strutturali cardiache e preferenza del paziente. In generale possiamo affermare che più l’aritmia ha breve durata e più il paziente è “sano” (ovvero non ha alterazioni cardiaci strutturali significative) ed è sintomatico, più vi è indicazione e beneficio ad effettuare l’ablazione della fibrillazione atriale.
– Ci sono degli esami preparatori necessari in vista dell’ablazione di fibrillazione atriale?
Prima della procedura di ablazione di fibrillazione atriale vengono eseguiti gli esami ematochimici di routine, inclusa la valutazione completa della coagulazione del sangue, e l’ecocardiografia transesofagea. Quest’ultimo è un esame che permette di visualizzare in maniera ottimale l’atrio e l’auricola sinistra, in modo da escluderne all’interno la presenza di eventuali coaguli. Un trombo intra-auricolare è, de facto, l’unica vera controindicazione assoluta al cateterismo transettale, e quindi, all’ablazione di fibrillazione atriale.
– Come viene eseguita la procedura di ablazione della fibrillazione atriale?
Si tratta di una procedura che a grandi linee non presenta estreme dissimilitudini dalle comuni procedure di ablazione né dalla procedura di occlusione percutanea dell’auricola sinistra. Poiché però si caratterizza per tempi di ablazione più lunghi ed avviene sul versante sinistro, o arterioso, della circolazione sanguigna impone particolari accorgimenti in termini sia di sedazione intraprocedurale che di gestione della terapia anticoagulante. Tecnicamente, una volta ottenuti gli accessi vascolari femorali (in anestesia locale), si avanzano i cateteri al cuore e si accede all’atrio sinistro mediante puntura transettale. Successivamente, utilizzando sistemi di mappaggio magnetici o impedenziometrici, si effettua una mappa elettroanatomica tridimensionale dell’atrio sinistro al fine di definirne con precisione l’anatomia, valutarne le caratteristiche tissutali e identificare i target ablativi, ovvero la giunzione tra atrio e vene polmonari. L’obiettivo della procedura è infatti rappresentato dall’isolamento elettrico delle vene polmonari che consiste nell’effettuare una cauterizzazione di tutto il tessuto intorno alla giunzione tra atrio sinistro e vene polmonari in modo da creare una barriera elettrica che blocchi la propagazione dei segnali elettrici tra queste strutture. In passato, tale procedura veniva realizzata sotto guida fluoroscopica, quindi mediante l’utilizzo di raggi X. L’introduzione dei sistemi di mappaggio elettroanatomici, che permettono la visualizzazione in tempo reale con precisione inferiore a 1 mm dei cateteri all’interno del cuore, ha permesso di abbattere drasticamente l’esposizione radiologica al paziente e al personale medico, riducendo in tale modo tutte le potenziali complicanze ad essa associate. Una volta eseguita l’ablazione, si rimuovono i cateteri e gli introduttori e si procede con la chiusura degli accessi vascolari che si ottiene mediante compressione manuale e il posizionamento di un bendaggio compressivo, da mantenere fino al giorno successivo. Il paziente viene quindi rapidamente svegliato e riportato nella propria stanza di degenza con indicazione a rimanere a letto senza muovere le gambe fino alla mattina successiva. Il giorno seguente, dopo verifica degli accessi vascolari, il paziente viene fatto camminare e successivamente dimesso dall’Ospedale. Per i successivi 4 giorni è consigliabile attenersi ad una vita di riposo, dal 5° giorno si può riprendere invece la normale attività quotidiana, compresa quella sportiva.
– Come può essere gestita la sedazione intraprocedurale?
Come abbiamo precedentemente riportato, l’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale, a differenza dell’ablazione di quasi tutte le altre aritmie cardiache (eccetto quella delle tachicardie ventricolari), si caratterizza per tempi di ablazione abbastanza lunghi, mediamente di circa 40-60 minuti, e avviene in punti del cuore in cui l’elicitazione del dolore è un fenomeno abbastanza comune. È quindi essenziale, per la riuscita della procedura e per il benessere psicofisico del paziente, utilizzare un adeguato protocollo di anestesia intraprocedurale. Al riguardo, esistono essenzialmente quattro diversi approcci: la sedazione leggera, la comunicazione ipnotica, la sedazione profonda e l’anestesia generale. All’Ospedale Mauriziano di Torino utilizziamo da anni la sedazione profonda con infusione continua di propofol. Nella nostra esperienza ormai quasi ventennale di ablazione transcatetere della fibrillazione atriale, questa strategia si è dimostrata essere di gran lunga la più vantaggiosa. Il paziente infatti, grazie alla sedazione profonda, rimane incosciente per tutta la procedura, senza percepire alcun dolore né alcuna sensazione di ansia e agitazione. Il paziente è comunque costantemente in respiro spontaneo per cui non vi è la necessità di intubazione oro-tracheale (con i rischi annessi). Il farmaco, avendo una emivita estremamente breve, viene eliminato dall’organismo molto rapidamente per cui, al termine dell’infusione, il paziente si “risveglia” in pochi minuti, senza successive fastidiose code dell’effetto farmacologico (tipiche, invece, di molti altri anestetici).
– La terapia anticoagulante peri-procedurale è importante?
L’aspetto probabilmente più importante di una procedura di ablazione transcatetere di fibrillazione atriale è la terapia anticoagulante. È ampiamente risaputo, infatti, che l’introduzione di corpi estranei nel cuore e la cauterizzazione del tessuto cardiaco favoriscono la formazione di coaguli all’interno del cuore. L’eventuale embolizzazione di un coagulo, ovvero il distacco e il trasporto a valle secondo la direzione del torrente circolatorio, ha effetti profondamente diversi a seconda che avvenga sul versante destro o sinistro del circolo ematico. Nel primo caso, il coagulo finirà all’interno della rete vascolare dei polmoni, con minimi rischi di serie conseguenze. Nel secondo caso, invece, il coagulo potrebbe arrivare al cervello, causando un ictus. Come segnalato in precedenza, questa procedura avviene in atrio sinistro, quindi sul versante sinistro del circolo ematico. Di conseguenza, al fine di evitare eventuali ictus, è essenziale che il paziente sia adeguatamente scoagulato prima della procedura (ovvero che assuma una adeguata terapia anticoagulante per almeno un mese prima dell’ablazione), che non sospenda la terapia anticoagulante ma, anzi, che la mantenga ai dosaggi standard per tutto il ricovero ospedaliero (compreso il giorno della procedura), e che la continui per almeno 3 mesi dopo la procedura. A quel punto, l’eventuale continuazione o meno, sarà legata alla presenza di eventuali recidive aritmiche e, soprattutto, al profilo di rischio tromboembolico del paziente (quindi in base al suo punteggio CHA2DS2-VASc).
– Quali sono le percentuali di successo e di complicanze?
I risultati dell’ablazione sono legati principalmente al tipo di fibrillazione atriale, alla durata dell’aritmie e alle dimensioni dell’atrio sinistro. Le percentuali di successo completo vanno dal 75-85% per la FA parossistica al 40-60% per le forme di FA persistenti e “permanente”. In circa il 25-35% dei pazienti, per raggiungere tali risultati, vi è la necessità di ripetere la procedura due volte. Nella restante percentuali di pazienti, ovvero 15-25% di quelli con FA parossistica e 40-60% di quelli con FA persistente e “permanente”, nonostante siano etichettati come insuccesso dell’ablazione avendo avuto almeno una recidiva di FA dopo la procedura, in realtà mostrano pressoché sempre una significativa riduzione del numero delle recidive aritmiche per cui soggettivamente stanno comunque molto meglio. La percentuale di pazienti che non ha alcun beneficio dalla procedura di ablazione e che quindi evolve verso una forma di fibrillazione atriale permanente (di fatto invece quello che succede sempre ai pazienti che non effettuano l’ablazione) si aggira solo sul 6-7% del totale, e quasi tutti questi pazienti avevano una forma di FA persistente di lunga durata già prima dell’ablazione. Per quanto riguarda invece le complicanze, nella nostra casistica, si aggirano sul 1-1.5%, e sono rappresentate principalmente da sanguinamenti a livello degli accessi vascolari femorali e molto raramente da versamento pericardico. Eventi ischemici cerebrali (quindi TIA o ictus) in corso di procedura di ablazione, un tempo relativamente comuni (1-1.5%), sono oggi fortunatamente estremamente rari e quasi aneddotici: il miglioramento della tecnologia a disposizione per eseguire l’ablazione e, soprattutto, il fatto di effettuare la procedura di ablazione senza interrompere l’anticoagulante orale hanno “rivoluzionato” la sicurezza della procedura e abbattuto le complicanze trombo-emboliche (senza aumentare contemporaneamente il rischio di sanguinamenti).
– Che controlli bisogna fare a seguito dell’ablazione?
I controlli standard, caratterizzati da ECG, visita aritmologica e Holter ECG, vengono normalmente programmati a distanza di 3, 6 e 12 mesi dalla procedura. Ulteriori e/o successivi controlli vanno invece discussi con il medico, in base alle condizioni del paziente e al risultato della procedura.
Ablazione transcatetere della fibrillazione atriale con crio-pallone (o crio-ablazione della fibrillazione atriale)
Si tratta di una variante della normale ablazione transcatetere della fibrillazione atriale in cui, per eseguire le “bruciature” all’interno dell’atrio sinistro, invece di utilizzare un catetere ablatore a radiofrequenza si utilizza un crio-pallone. Il crio-pallone non è altro che un catetere che viene avanzato dentro il cuore e la cui porzione distale è simile ad un sacchetto che può essere riempito di azoto liquido, gonfiandolo come un palloncino. Una volta posizionato questo catetere nel punto desiderato, normalmente la giunzione tra atrio sinistro e vena polmonare, si gonfia il crio-pallone (connesso esternamente con un reservoir di azoto liquido) riempiendolo di azoto liquido e il suo contatto con la parete cardiaca, essendo questo pallone a questo punto estremamente freddo (-75°C), causa una lesione ipotermica del tessuto cardiaco. Per avere un danno definitivo lo si lascia adeso alla parete cardiaca per almeno 4 minuti. Successivamente si sgonfia il pallone, lo si riposiziona in un’altra sede, e si ripete la sequenza di gonfiaggio-attesa-sgonfiaggio, fino ad avere isolamento elettricamente tutte le vene polmonari. I restanti aspetti procedurali, inclusa la necessità di adeguata terapia anticoagulante, sono assolutamente analoghi a quelli della normale ablazione di fibrillazione atriale con radiofrequenza.
– L’ablazione con crio-pallone è meglio di quella a radiofrequenza?
Assolutamente no! L’ablazione con crio-pallone, proprio per la propria natura, si può utilizzare solo quando il target ablativo è l’isolamento elettrico delle vene polmonari. In questo e questo solo ambito la sua efficacia è sovrapponibile a quella dell’ablazione con radiofrequenza. Ma qualora si volesse effettuare ulteriori “bruciature” su target alternativi in atrio sinistro, questo non può essere fatto con il crio-pallone ma solo con i normali ablatori a radiofrequenza. Il vantaggio della crio-energia è semplicemente il fatto che è quasi indolore, e quindi non richiede l’utilizzo di profonde sedazioni ed è una metodica relativamente rapida che richiede poca curva di apprendimento ed esperienza degli operatori prima di essere utilizzata. Ma l’ablazione con radiofrequenza è più duttile e in forme di fibrillazione atriale più difficili e refrattarie anche più efficace.
Ablazione transcatetere della fibrillazione atriale con approccio endocardico/epicardico (approccio Mauriziano endo/epi)
– Cosa significa ablazione endocardica ed epicardica?
L’endocardio è la superficie interna del cuore, ovvero quella che si raggiunge dall’interno, passando attraverso le vene e/o le arterie. L’epicardio è invece la superficie esterna del cuore che normalmente è rivestita dal pericardio, ovvero quella membrana a due strati che avvolge completamente il cuore. L’ablazione può essere eseguita dall’interno del cuore, quindi endocardica (di gran lunga la più frequente) o dall’esterno del cuore, quindi epicardica
– Perché la fibrillazione atriale può recidivare dopo una procedura di ablazione?
Dopo una procedura di ablazione di fibrillazione atriale, ci possono essere delle recidive di fibrillazione atriale. I meccanismi dietro tali recidive sono numerosi, complessi e ancora oggi non completamente noti. Sicuramente il meccanismo principale è l’assenza di transmuralità della lesione ovvero la bruciatura fatta dalla superficie interna del cuore non riesce a cauterizzare il tessuto sottostante a tutto spessore, lasciando quindi del tessuto cardiaco patologico integro e funzionalmente attivo. In tale modo, residuando ancora del tessuto cardiaco patologico, il rischio di recidive di fibrillazione atriale dopo la procedura di ablazione è altissimo.
– Che cos’è l’ablazione endo-epi della fibrillazione atriale utilizzata all’Ospedale Mauriziano di Torino?
Con l’approccio endo-epi (approccio che in Italia viene eseguito esclusivamente presso il nostro centro, all’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino), invece, la bruciatura del tessuto cardiaco patologico viene eseguita contemporaneamente sia dal versante interno, l’endocardio (approccio classico), che dal versante esterno del cuore, ovvero dall’epicardico. In tal modo la bruciatura è molto più profonda, transmurale ed efficace. Tale approccio integrato endocardico + epicardico permette di aumentare l’efficacia dell’ablazione delle forme di fibrillazione atriale più difficili del 35-40%, a parità di rischi operatori maggiori.
– Come si arriva con i cateteri in epicardio?
L’accesso allo spazio epicardico avviene per via percutanea, non cardiochirurgica, in anestesia locale e sedazione profonda, mediante puntura subxifoidea, ovvero mediante una puntura al di sotto del costato, utilizzando un ago dedicato molto sottile e una guida angiografica. Una volta ottenuto l’accesso epicardico e avanzato il catetere in epicardio, il catetere stesso verrà manovrato liberamente, in maniera simile a come si fa normalmente con un approccio classico endocardico.
All’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino, unici in Italia ad utilizzare questo approccio ablativo per la fibrillazione atriale, ricorriamo a questa metodica per trattate le forme di fibrillazione atriale più difficili, ovvero quelle di maggior durata o recidivanti nonostante precedenti ablazioni convenzionali endocardiche.
– L’approccio edo/epi è più efficace?
Assolutamente sì! Nella nostra casistica l’ablazione endo/epi alle forme di fibrillazione atriale più difficili e resistenti offe una efficacia maggiore del 35-40% rispetto all’ablazione con solo approccio classico endocardico.
– L’approccio edo/epi è rischioso?
L’approccio endo/epi non è più rischioso di una normale ablazione endocardica di fibrillazione atriale ma più indaginoso e complesso da eseguire. La maggior complessità risiede esclusivamente nell’accesso epicardico e nella terapia anticoagulante assunta dal paziente. Normalmente, una volta terminata la procedura, si rimuovono immediatamente gli introduttori vascolari, mentre si rimuove il drenaggio pericardico a distanza di 24 ore, dopo il riavvio della terapia anticoagulante. La degenza ospedaliera quindi di un paziente con approccio endo/epi è più lunga mediamente di un giorno rispetto a quella di un paziente con ablazione endocardica convenzionale. Nei primi giorni dopo la procedura, inoltre, è possibile percepire un certo fastidio toracico inspiratorio; fastidio che regredisce rapidamente con la terapia anti-infiammatoria che viene prescritta regolarmente in dimissione.
Ablazione transcatetere delle extrasistoli ventricolari/tachicardie ventricolari
– Quali sono le indicazioni all’ablazione transcatetere di tachicardia ventricolare?
Le tachicardie ventricolari monomorfe si dividono in due grandi gruppi: quelle che compaiono in cuori strutturalmente sani e quelle che compaiono in cuori con alterazioni strutturali. Nel primo caso, l’indicazione è principalmente guidata dai sintomi del paziente, giacché non vi è una pericolosità intrinseca di queste aritmie. Nel secondo caso, invece, l’ablazione permette di ridurre le recidive aritmiche e gli interventi del defibrillatore, che sono particolarmente dolorosi, e secondo recenti dati della letteratura, anche ridurre la mortalità totale.
– Ci sono degli esami preparatori necessari in vista dell’ablazione di tachicardia ventricolare?
Gli esami preparatori sono diversi a seconda del tipo di tachicardia ventricolare che deve essere trattata. In pazienti con cuore strutturalmente sano, generalmente non sono necessari particolari esami preparatori che si escludono i comuni esami ematochimici di routine (quindi emocromo, creatinina, elettroliti, assetto coagulativo). In alcuni selezionati casi può essere utile eseguire esami di imaging quali una risonanza magnetica cardiaca o una TC del torace, al fine di ottenere una ricostruzione tridimensionale accurata delle camere cardiache che possa guidare e facilitare la procedura di ablazione stessa. Nei pazienti, invece, con cardiopatia strutturale, oltre agli ematochimici precedentemente citati, è molto importante eseguire prima dell’ablazione un ecocardiogramma, al fine di quantificare con precisione il grado e la sede delle alterazioni strutturali cardiache, ed essere in. In pazienti con anomalie strutturali, infine, una RMN cuore MDC (in assenza di ICD) o una TC torace MDC sono esami che forniscono importanti e più complete informazioni (rispetto all’ecocardiogramma) sulla sede e sulla distribuzione delle anomalie tissutali cardiache, fornendo pertanto una guida di inestimabile valore per il miglioramento dei risultati della procedura.
– Come viene eseguita la procedura di ablazione di tachicardia ventricolare?
Si tratta di una procedura tecnicamente simile a quella di ablazione di fibrillazione atriale. E come questa, a seconda delle indicazioni cliniche, può essere fatta dal solo versante endocardico o contemporaneamente sia dal versante endocardico che da quello epicardico.
– La terapia anticoagulante peri-procedurale è importante?
Se la procedura avviene sul versante sinistro della circolazione, quindi in ventricolo sinistro, il paziente deve essere adeguatamente scoagulato per tutta la durata della procedura. In assenza però di fibrillazione atriale, non vi è normalmente indicazione ad avviare una terapia anticoagulante prima e al termine della procedura.
– Quali sono le percentuali di successo e di complicanze dell’ablazione di tachicardia ventricolare?
Le percentuali di successo variano dal 40% a > 90%, a seconda del tipo di aritmia ventricolare viene trattata, se una TV in un cuore sano piuttosto che una TV in un paziente con cardiopatia ischemica o cardiomiopatia dilatativa idiopatica. Allo stesso modo, le percentuali di complicanze variano dal 1.5% al 4-7%, a seconda della complessità e delle comorbilità del paziente trattato.
– Che controlli bisogna fare a seguito dell’ablazione?
I controlli standard, caratterizzati da ECG, visita aritmologica e Holter ECG, vengono normalmente programmati a distanza di 3, 6 e 12 mesi dalla procedura. Ulteriori e/o successivi controlli vanno invece discussi con il medico, in base alle condizioni del paziente e al risultato della procedura. Nei pazienti portatori di defibrillatore, oltre ai controlli clinici ambulatoriali, vi sono anche da eseguire i routinari controlli ICD, siano essi ambulatoriali che remoti, secondo le normali indicazioni cliniche (per ulteriori dettagli si rimanda al capitolo dedicato).
Ablazione transcatetere del substrato nella Sindrome di Brugada
La sindrome di Brugada è una malattia genetica caratterizzata dalla presenza di alterazioni elettrocardiografiche tipiche e aritmie ventricolari maligne, responsabili di sincopi e/o morta cardiaca improvvisa. Il substrato “elettro-anatomico” di questa malattia è costituito dalla presenza di potenziali frammentati di basso voltaggio e ampia durata localizzati a livello della porzione epicardica del tratto di efflusso del ventricolo destro. L’ablazione transcatetere con radiofrequenza finalizzata alla completa eliminazione di questi potenziali anomali (che non si identificano mai nella stessa area in pazienti senza sindrome di Brugada) determina la soppressione delle aritmie ventricolari e la normalizzazione dell’ECG con scomparsa “permanente” del pattern tipo I, anche dopo test provocativo con ajmalina.
Oggi, l’ablazione è raccomandata in pazienti con sindrome di Brugada, portatori di ICD e aritmie ventricolari recidivanti (classe IIB). È altresì da considerare nei pazienti con sindrome di Brugada e sincopi e/o inducibilità di aritmie ventricolari sostenute allo studio elettrofisiologico. Più in generale, va considerata in tutti i pazienti con pattern Brugada tipo I spontaneo (anche asintomatici), visto il rischio di aritmie ventricolari tutt’altro che trascurabile in quest’ultimo gruppo di pazienti. Per quanto riguarda, invece, i pazienti con pattern Brugada tipo I indotto e asintomatici, visto il rischio di eventi avversi potenzialmente fatali relativamente basso (dello 0.5% annuo, quindi comunque circa 50 volte più alto che nelle persone senza sindrome di Brugada) e i dati a lungo termine dell’ablazione ancora non eccessivamente abbondanti, l’ablazione dovrebbe essere presa in considerazione solo dopo una attenta discussione del rapporto rischi/benefici e su espressa volontà e decisione del paziente.
– Ci sono degli esami preparatori necessari in vista all’ablazione transcatetere del substrato nella sindrome di Brugada?
A parte l’esecuzione dei normali esami ematochimici di routine (compreso il profilo della coagulazione), non è necessario nessun altro esame strumentale.
– Come viene eseguita la procedura di all’ablazione transcatetere del substrato nella sindrome di Brugada?
Si tratta essenzialmente di una forma particolare di ablazione transcatetere di tachicardia ventricolare, in cui il ventricolo interessato è il destro, e l’ablazione viene effettuata sul solo versante epicardico.
Dopo ottenimento degli accessi e mappaggio endocardico del ventricolo destro si effettua lo studio elettrofisiologico al fine di valutare la presenza di inducibilità di aritmie ventricolari maligne e, quindi, la presenza o meno di vulnerabilità ventricolare. Si procede quindi ad eseguire l’accesso epicardico per via subxifoidea e al successivo mappaggio epicardico del ventricolo destro, sia in basale che durante infusione di ajmalina. L’obiettivo di questa fase è identificare i potenziali patologici di basso voltaggio, frammentati e di lunga durata, tipici della sindrome di Brugada. Una volta identificata l’area con questi segnali anomali, si effettua l’ablazione di questa area con l’obiettivo di eliminare completamente tali segnali. Durante ablazione, man mano che i potenziali vengono eliminati, si assisterò alla scomparsa del pattern Brugada e alla comparsa di un marcato sopraslivellamento orizzontale del tratto ST nelle derivazioni precordiali destre. Al termine, si ripete l’infusione di ajmalina per verificare l’assenza di ulteriore comparsa di un pattern Brugada tipo I, vero endpoint della procedura. In caso di assenza di ulteriori alterazioni dell’ECG, si ripete lo studio elettrofisiologico e si termina la procedura, rimuovendo cateteri ed introduttori e chiudendo gli accessi vascolari mediante compressione manuale e posizionamento di un bendaggio compressivo, da mantenere fino al giorno successivo. In caso invece, di nuova slatentizzazione del pattern Brugada tipo I, si ripete nuovamente il mappaggio e l’ablazione, fino alla completa normalizzazione dell’ECG. Il giorno successivo il paziente viene dimesso a domicilio con una adeguata terapia antinfiammatoria.
– La terapia anticoagulante peri-procedurale è importante?
L’ablazione avviene sul versante epicardico, quindi esterno del cuore, per cui non è necessaria alcuna terapia anticoagulante.
– Nel post-operatorio è comune avere fastidio al torace?
Essendo il target ablativo localizzato sulla superficie epicardica (quindi esterna) del ventricolo destro, a diretto contatto con il pericardio, una reazione infiammatoria pericarditica post-procedurale è relativamente comune e si può osservare in circa il 20-25% dei casi. Regredisce rapidamente, senza reliquati, con una adeguata terapia antiinfiammatoria caratterizzata da ibuprofene, colchicina ed un gastroprotettore, il primo da assumere per circa 2 settimane, il secondo e il terzo per circa un mese.
– Quali sono le percentuali di successo e di complicanze dell’ablazione transcatetere del substrato nella sindrome di Brugada?
Da tutti gli studi effettuati fino ad ora, e anche dalla nostra esperienza all’Ospedale Mauriziano di Torino (in questo contesto abbiamo la seconda casistica più grande al mondo), emergono gli ottimi risultati di questa procedura, caratterizzata da una efficacia, definita dall’assenza di aritmie ventricolari e scomparsa del pattern tipo I, del 90-95% e da un ottimo profilo di sicurezza, con un tasso di complicanze procedurali maggiori inferiore al 2%.
– Che controlli bisogna fare a seguito dell’ablazione?
Tutti i pazienti devono ripetere un test all’ajmalina a distanza di 3-6 mesi e poi eventualmente a 12 mesi dalla procedura. In coloro i quali lo studio elettrofisiologico pre-ablazione era risultato positivo, si preferisce ripeterlo nuovamente, assieme al test all’ajmalina, al controllo dei 3-6 mesi. Ulteriori e/o successivi controlli, inclusi ECG, visita aritmologica e Holter ECG a 12-derivazioni, vanno stabiliti con il medico, in base alle condizioni del paziente e al risultato della procedura.
Chiusura percutanea dell’auricola sinistra
È una procedura percutanea, grazie alla quale, è possibile occludere l’auricola sinistra mediante il posizionamento al suo interno di un dispositivo protesico metallico. La fibrillazione atriale, infatti, causa un marcato rallentamento del flusso ematico all’interno dell’atrio sinistro con conseguente elevato rischio di formazione di coaguli. Qualora questi coaguli dovessero embolizzare, attraverso il torrente circolatorio possono arrivare al cervello, causando degli ictus, a volte devastanti. All’interno dell’atrio sinistro i coaguli non si formano ovunque ma hanno una predilezione per l’auricola sinistra (oltre il 90% si forma infatti proprio in questa posizione). L’occlusione dell’auricola sinistra mediante un dispositivo metallico in grado di sigillarla completamente permette quindi di abbattere il rischio di formazione di coaguli all’interno dell’atrio sinistro e, quindi, di ridurre significativamente il rischio di ictus in corso di fibrillazione atriale. Normalmente, mediante la somministrazione di farmaci anticoagulanti che rendono il sangue più fluido, si riduce il rischio di formazione di coaguli e quindi anche di ictus in corso di fibrillazione atriale. Vi sono però pazienti con fibrillazione atriale ed elevato rischio tromboembolico che presentano controindicazioni importanti alla terapia anticoagulante e/o che sono ad elevato rischio di sanguinamento, per cui la terapia anticoagulante è controindicata. In questi pazienti, l’occlusione percutanea dell’auricola sinistra rappresenta una valida alternativa terapeutica. Questa strategia terapeutica ha ampiamente dimostrato di avere almeno la stessa efficacia della terapia anticoagulante nella prevenzione degli ictus, con il vantaggio però di non esporre il paziente ad un significativo e permanente rischio di sanguinamento (svantaggio, quest’ultimo, tipico e inalienabile di ogni terapia anticoagulante).
– Chi è il miglior candidato all’occlusione percutanea dell’auricola sinistra?
I migliori candidati sono tutti i pazienti con fibrillazione atriale, elevato rischio tromboembolico (CHA2DS2-VASc score ≥ 2) e controindicazione alla terapia anticoagulante e/o elevato rischio di sanguinamento in corso di terapia anticoagulante (HAS-BLED score > 3). Sono anche ottimi candidati i pazienti con fibrillazione atriale e che, nonostante una adeguata terapia anticoagulante, abbiano subito un ictus ischemico o sia stata dimostrata la presenza di un coagulo intra-auricolare con tecniche di imaging.
– Come viene eseguita la procedura di occlusione percutanea dell’auricola sinistra?
Si tratta di una procedura percutanea, in cui il dispositivo viene portato al cuore mediante la puntura della vena femorale. Poiché la procedura richiede l’utilizzo sia della fluoroscopia che dell’ecocardiografia transesofagea, il paziente viene tipicamente addormentato con una sedazione profonda (è però raramente necessario ricorrere all’anestesia generale con intubazione oro-tracheale). Una volta ottenuti gli accessi vascolari, si accede all’atrio sinistro mediante puntura transettale e successivamente, mediante l’integrazione delle diverse tecniche di imaging, si posiziona il dispositivo all’interno dell’auricola sinistra. A questo punto, verificata la stabilità del dispositivo, si rilascia il dispositivo in auricola. Si rimuovono infine gli introduttori vascolari utilizzati, si risveglia il paziente e lo si riporta nella sua stanza di degenza. Il giorno dopo, dopo verifica degli accessi vascolari ed eventuale rimozione del punto di sutura, il paziente viene fatto camminare e successivamente dimesso a domicilio.
– Bisogna assumere delle terapie antitrombotiche successivamente?
A seconda dell’indicazione per cui è stata eseguita la procedura, il paziente può essere dimesso con solo acido acetilsalicilico, in doppia terapia antiaggregante (acido acetilsalicilico e clopidogrel) o in terapia anticoagulante. Normalmente, a 6 mesi dalla procedura, il paziente dovrà ripetere un’ecocardiogramma transesofageo, in modo da verificare la corretta occlusione dell’auricola e l’assenza di eventuali leak. Tale esame è molto importante per stabilire l’interruzione o la continuazione delle terapie antiaggreganti/anticoagulanti ancora assunte dal paziente.
– Quali sono le percentuali di successo e di complicanze?
La procedura, in mani esperte, ha un tasso di successo maggiore del 97%. Da un punto di vista invece della sua efficacia nella riduzione dell’ictus ischemico in pazienti con fibrillazione atriale, tutti gli studi hanno evidenziato una efficacia almeno pari, se non superiore, a quella degli anticoagulanti tradizionali (quindi warfarin) con il vantaggio, però, di non aumentare i sanguinamenti, cosa che invece fanno tutti gli anticoagulanti. Quindi, in definitiva, con questa procedura si possono ottenere i benefici della terapia anticoagulante, senza doverne accettare gli svantaggi. Le complicanze sono invece nell’ordine del 1-2%, sovrapponibili a quelle dell’ablazione della fibrillazione atriale.
Chiusura dell’auricola sinistra con sistema LARIAT
Si tratta di una particolare modalità di occlusione dell’auricola sinistra in cui, invece di utilizzare un dispositivo metallico da posizionare per via endocardica all’interno dell’auricola, si basa sull’applicare un filo a forma di cappio (che una volta posizionato correttamente viene poi stretto) intorno all’auricola dal suo versante esterno, ovvero dall’epicardio.
– Chi è il miglior candidato all’occlusione dell’auricola sinistra con sistema LARIAT?
Le indicazioni sono le stesse dell’occlusione percutanea dell’auricola sinistra, con in più tutti quei pazienti che avrebbero indicazione a chiudere l’auricola ma avendo una controindicazione anche alla terapia antiaggregante non possono andare incontro all’occlusione percutanea dell’auricola sinistra (che giacché prevede il posizionamento di una struttura metallica intracardiaca richiede normalmente una o due terapie antiaggreganti per lungo tempo). Poiché, inoltre, con l’occlusione LARIAT noi eliminiamo anche funzionalmente ed elettricamente il tessuto auricola sinistro, questa procedura è il naturale completamento (e ne aumenta l’efficacia) alla procedura di ablazione endo/epi delle forme di fibrillazione atriale più difficile e resistenti.
– Come si effettua la procedura di occlusione dell’auricola sinistra con sistema LARIAT?
La procedura tecnicamente è molto simile all’ablazione endo-epi di fibrillazione atriale. Dopo l’ottenimento del contemporaneo accesso endocardico ed epicardico al cuore, si posizionano un piccolo magnete collegato ad una guida sul versante endocardico dall’auricola e, contemporaneamente, un secondo magnete, sempre collegato ad una guida, sul versante epicardico, speculare al precedente. Tale sistema di magneti crea di fatto un binario su cui il filo con cappio viene fatto scorrere e posizionato intorno al collo dell’auricola. Una volta verificato il corretto posizionamento, si stringe il cappio, occludendo ed escludendo istantaneamente l’auricola. Si procede quindi al taglio del filo e alla rimozione di tutti i materiali. In caso di contemporanea ablazione endo/epi di fibrillazione atriale, a questo punto, si procederà con il completamento dell’ablazione, come descritto in precedenza. Alla fine della procedura si rimuovono gli introduttori vascolari mentre il drenaggio pericardico viene rimosso 24 ore dopo, dopo riavvio della terapia anticoagulante. Il giorno successivo il paziente viene dimesso a domicilio.
– È necessaria una terapia antiaggregante/anticoagulante dopo questa procedura?
L’assenza di una struttura metallica dentro l’atrio permette una gestione della terapia anticoagulante/antiaggregante più tranquilla e meno rigida rispetto a quella necessaria dopo occlusione percutanea dell’auricola sinistra.
– Quali sono le percentuali di successo e di complicanze?
La procedura, in mani esperte, ha un tasso di successo maggiore del 90%. L’unico limite al successo di tale procedura è la presenza di aderenze intorno all’auricola: se queste sono presenti il filo con il cappio non può abbracciare completamente il collo dell’auricola e quindi la procedura non può essere effettuata. Si tratta in realtà di una evenienza non comune. Le complicanze sono invece nell’ordine del 1-2%, sovrapponibili a quelle dell’ablazione endo-epi della fibrillazione atriale.
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